Sylvester Stallone si racconta in un documentario doloroso. Sly di Thom Zimny, un film visibile su Netflix, offre un ritratto sincero del cineasta italo-americano, creatore di tre iconiche saghe cinematografiche: Rocky, Rambo e I mercenari. Sly è la confessione di un divo, abituato, per scelta o per necessità, a rimettersi continuamente in gioco. Stallone è istinto puro. In perenne lotta con l’industria cinematografica statunitense. Come rimarca Quentin Tarantino, Stallone è stata “la prima star a dirigersi”. Arnold Schwarzenegger ricorda che “non c’è stato nessuno che abbia avuto successo in tre saghe diverse. Questo è il genio che c’è dietro. Non è stato un caso”. Stallone, attore-regista 77enne, originario del quartiere di Hell’s Kitchen di New York, è ancora muscoloso. Con un volto che denuncia qualche intervento chirurgico di troppo. L’interprete parla senza filtri davanti alla macchina da presa. Si muove nervosamente nella sua casa-museo di Los Angeles, tra cimeli, sculture, quadri, premi e documenti. Nel frattempo, il montaggio che lo stesso Zimny ha curato insieme ad Annie Salsich, alterna frammenti dei suoi film, materiale di repertorio e interviste. A questo proposito, occorre menzionare, oltre a quelle dei citati Tarantino e Schwarzenegger, anche le testimonianze del fratello, Frank Stallone, del regista John Herzfeld, degli attori Talia Shire ed Henry Winkler e del critico Wesley Morris.
La vicenda umana e artistica di Stallone rappresenta il classico romanzo di formazione americano. Vita umile, inizi difficili e successo. D’altronde è lo stesso attore che punta, nelle sue sceneggiature, alla struttura classica dei tre atti di matrice aristotelica: inizio, svolgimento e fine. Il filo conduttore del racconto è una vecchia intervista rilasciata al New York Times, incisa su un’audiocassetta. Stallone parla dell’infanzia tormentata, divisa tra le strade violente di Hell’s Kitchen, una madre distratta, Jacqueline Frances Labofish, un’astrologa statunitensi di origini ucraine; e un padre duro, addirittura competitivo, Frank, un barbiere di origini pugliesi, che “sembrava uscito da un libro di Arthur Miller”. Ogni episodio significativo della storia di Stallone sottolinea le influenze della figura paterna. Per queste ragioni, il cinema assurge a motivo di riscatto. “Passavo le giornate al cinema, coltivavo il culto dell’eroe. Del bene che trionfa sul male”. Una maledizione che sembra perseguitare Stallone. L’attore, infatti, parla anche della relazione complessa che ha avuto con il figlio primogenito Sage, morto prematuramente nel 2012, all’età di 36 anni. Nel film Rocky V, uscito nel 1990, Sage interpreta il figlio di Rocky Balboa, Robert. Il lungometraggio racconta proprio il difficile rapporto di un padre con il figlio. Naturalmente, ampio spazio di Sly viene dedicato alla scrittura, la produzione e le riprese di Rocky di John G. Avildsen. Un testo fortemente autobiografico, come la maggior parte dei copioni firmati da Stallone, debitore di un capolavoro come Fronte del porto (On the Waterfront) di Elia Kazan, interpretato da Marlon Brando. Un’attenzione diversa, ma altrettanto appassionata, viene riservata alla riscrittura di Rambo (1982) di Ted Kotcheff, film tratto dal romanzo Primo sangue (First Blood) di David Morrell. In definitiva, l’intera parabola autoriale di Stallone racconta la figura del loser, del perdente. Uno sconfitto che, attraverso la propria determinazione, contro tutto e tutti, alla fine raggiunge l’obiettivo: il rispetto di sé stesso e l’amore della propria amata. Eppure, dopo il dolore e l’incomprensione, il rapporto di amore-odio con il padre resta una ferita ancora aperta. Il vero motore di ogni sfida. Così, quando pensa a Il leone d’inverno (The Lion in Winter), il film di Anthony Harvey, ricorda il padre. “Perché spiega l’esigenza umana: l’amore corrisposto”.
Aggiornato il 10 novembre 2023 alle ore 19:16