“Ammiro la tua bellezza, e sono sotto di essa... È qui la forza dei quadri della Gentileschi: nel capovolgimento brusco dei ruoli. Una nuova ideologia vi si sovrappone, che noi moderni leggiamo chiaramente: la rivendicazione femminile” (Roland Barthes).
Artemisia, corrispettivo femminile di “Artemis” ovvero Artemide, la dea dei boschi, della caccia e della luna con il nome di Diana. Niente di più appropriato e divinatorio per una donna tanto coraggiosa, autonoma e intraprendente che potrebbe definirsi, con un tocco di modernità, una delle antesignane “femministe”, dato che fu la prima donna a essere ammessa, nel 1616, all’Accademia delle arti del disegno di Firenze. Un vero e proprio modello di grinta, che è riuscita ad imporsi con successo nella cultura seicentesca, chiusa e nettamente maschilista. Siamo ai primordi del 1600, Artemisia Gentileschi segna un tratto di rivoluzionaria liberazione, artista pertinace, risoluta e indipendente in un’epoca in cui questi termini non potevano essere né concepiti, né accettati. Nasce a Roma nel 1593, una città fervente dal punto di vista artistico e sociale, ove nonostante l’alta densità di medicanti, prostitute e ladri, albergava un sostanziale polo attrattivo di arte e cultura.
Tanti pellegrini, tante commissioni. Artemisia è sì figlia d’arte – suo padre Orazio Gentileschi era un pittore di discreto talento piuttosto rinomato – impara dunque i primi rudimenti attraverso il discepolato con il padre, ma grazie al suo talento e alla sua interiorizzazione artistica, supera di gran lunga il suo mentore divenendo, già nel 1612, più rinomata di lui. L’innato talento di Artemisia per le belle arti fu motivo di vanto e orgoglio per il padre, il quale decise di allocarla sotto la guida di tale Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l’œil detto “lo smargiasso”, pittore talentuoso ma con un carattere iroso e sanguigno dai trascorsi giudiziari più che burrascosi. Appunto. E come sul filo di un rischio preventivabile, ma non ben tarato dal padre di Artemisia, Agostino Tassi, nel 1611 la violenta arrivando subito dopo a blandirla con la promessa di sposarla.
Bisogna ricordare che all’epoca vi era la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale qualora fosse stato seguito dal cosiddetto “matrimonio riparatore”, contratto tra l’accusato e la persona offesa: si pensava, in quei tempi, che la violenza sessuale ledesse una generica moralità, senza offendere principalmente la persona, nonostante questa venisse coercizzata nella sua libertà di decidere della propria vita sessuale. Artemisia descrisse l’avvenimento con parole tremende, cedendo poi alle lusinghe con la speranza di un matrimonio riparatore che mai avverrà. Affrontò il processo – che durò ben 7 mesi – con coraggio e forza di spirito, cose non da poco, considerando che l’iter probatorio fu tortuoso, complicato e particolarmente aggressivo. È a questo periodo che risale una delle sue opere più note e vibranti: Giuditta che decapita Oloferne del 1613 (un segno di vendicativa natura attraverso le capacità immensamente espressive dell’arte?). Due donne, dall’espressione quasi scultorea, che decapitano, con risolutezza, un uomo. Seppur soggetto biblico, non sfugge la potenza rappresentativa.
Il processo si concluse con la condanna a 5 anni di reclusione – ai danni di Agostino – per deflorazione e una sanzione pecuniaria, in alternativa: esilio perpetuo da Roma a sua completa discrezione. Soluzione che Agostino ovviamente adottò trovando il modo – grazie a amicizie influenti – di non doversi neanche spostare da Roma. L’onorabilità di Artemisia fu totalmente compromessa pur avendo vinto il processo. L’intelligenza e la determinazione di Artemisia la portarono a convogliare immediatamente a nozze con Pierantonio Stiattesi, un pittore di modesta levatura, che, attraverso le nozze, le restituì uno status di sufficiente onorabilità, ma soprattutto, ad Artemisia è concesso di lavorare come artista perché il marito è egli stesso pittore. Le sue abilità artistiche, la sua natura eccezionalmente audace, decisa e contraddistinta da notevole intraprendenza, la resero famosa già dopo il suo primo trasferimento a Firenze. Diventa un’artista affermata al punto che il marito non tollera più il suo successo e se ne va. Artemisia prosegue, malgrado tutto, la sua rivoluzionaria carriera, intessendo e argutamente favorendo le giuste relazioni con ambasciatori e potenti dell’epoca.
Uno dei pochi vantaggi che le vengono dall’essere donna è l’opportunità di dipingere nudi femminili dal vero; ingegnosa otre che ricca di talento, realizza un congegno con due specchi montati sui due lati per realizzare il suo Autoritratto come allegoria della pittura. La sua pittura, appartenente al caravaggismo, la rappresenta con esattezza: chiaro-scuri con forti contrasti, realismo violento e coinvolgente con figure femminili attive, scene dinamiche. Artemisia si sposta da Firenze a Roma a Napoli, indomita, ottenendo commissioni e successo, cosa rarissima per una donna dell’epoca. È una donna violata ma non piegata. Trasforma i divieti e le censure del tempo a suo vantaggio, non lasciandosi violentare – come per una seconda volta – dalla rigidità e da regole nettamente a sfavore delle donne. Apre perciò, ammirevolmente, resistentemente, una nuova strada ricalcabile, che dovrebbe fornire un resiliente modello ai tempi anche tristemente attuali, ove la violenza di genere imperversa, spesso clandestina, serpeggiante, inghiottita fra le mura di casa. Miracolo della pittura, così i suoi contemporanei definivano Artemisia Gentileschi. Prima fra tutte diventa il simbolo del femminismo internazionale per il suo impegno a perseguire indipendenza e affermazione artistica. “Io non voglio che mi sia concesso di dipingere, io lo farò e basta”, da una delle 36 lettere di Artemisia. Chi o cosa ammirare di più?
Aggiornato il 20 ottobre 2023 alle ore 15:59