Se non Manzoni, chi?

Nell’era digitale è ancora necessario studiare I promessi sposi, testo dalla lingua difficile, dalla storia vetusta, con tutte quelle spiegazioni a piè di pagina? L’interrogativo è attuale in tempi di Cancel culture. Il professor Vincenzo Jacomuzzi, docente di letteratura e curatore di un’antologia manzoniana, ha lanciato una sfida alla Daniel Pennac: si possono interessare i giovani al capolavoro ottocentesco? Nell’Aula magna della Pontificia università lateranense, a Roma, un parterre d’eccezione si è riunito per analizzare “Fede e letteratura: il caso Manzoni a 150 anni dalla morte”. Un incontro organizzato dagli Uffici diocesani per la pastorale scolastica, universitaria e per la cultura in collaborazione con il gruppo editoriale “La scuola Sei”. Il professore Jacomuzzi ha ricordato quando, dopo la fondazione del Regno d’Italia, I promessi sposi era un testo obbligatorio, oggi solo consigliato. Ridimensionato dalla critica o stroncato dal progressismo? Nel 2010 Umberto Eco scrisse: “Molti pensano che il capolavoro manzoniano sia un testo noioso, come tutto ciò che è obbligatorio. Mio padre me lo regalò da ragazzo come un libro d’avventura. Ebbene, quando sarete grandi, leggetelo, ne vale la pena”. Consiglio ripreso susseguentemente dal filosofo Umberto Galimberti, seppure con una postilla sul ruolo celeste: “Romanzo bellissimo, ma è limitante pensare che l’uomo non conti nulla e che bisogna lasciar fare tutto a Quello Lassù”.

Il noto dibattito sulla contemporaneità del poema si riaccende. Alessandro Manzoni, “uomo del dubbio e al tempo stesso genio universale”, come lo definì Paolo VI, divide ancora la platea dei letterati e degli insegnanti, rappresentati da un folto gruppo di docenti delle scuole di Roma e del Lazio. “Possiamo discuterne, tuttavia ancora nessun autore è riuscito a descrivere minuziosamente il guazzabuglio umano”, ha sottolineato Rosario Chiarazzo, direttore dell’ufficio scuola diocesano, che ha moderato i lavori. A questo aspetto della profondità del testo e delle fonti ha dedicato la sua relazione il cardinale biblista Gianfranco Ravasi, che ha esortato docenti, genitori e comunicatori a introdurre i giovani all’attualità di Manzoni, poiché la sua rappresentazione della realtà, sia pure a secoli di distanza, propone la terribile triade che ritorna ai nostri tempi: “La carestia, la guerra e la peste non sono forse i drammi che inquietano società e nazioni?”.

Lo studioso Ravasi ha analizzato l’aspetto biblico, ricordando che in tutta l’opera non è mai citato il nome cristiano, benché la narrazione sia interamente imperniata dalla spiritualità. Ma qual era la documentazione dello scrittore lombardo rispetto ai testi sacri? Ravasi ha rivelato la sua conoscenza particolare, autobiografica, poiché anche lui è nativo di Lecco e dunque quei luoghi “sorgenti dalle acque” gli sono familiari e legati alla sua fonte esegetica. “Per capire lo svolgimento del poema si deve ricorrere alle fonti bibliche usate di Manzoni nelle sue Osservazioni sulla morale cattolica”, ha spiegato ricordando la conversione religiosa di Don Lisander avvenuta nel 1810 e la sua formazione giansenista. Ma Ravasi ha fatto di più. Approfittando dell’amicizia con il direttore della casa manzoniana di Milano, Giancarlo Vigorelli, si è introdotto nella libreria del poeta e ha scrutato i testi biblici che possedeva l’autore. “È evidente che Manzoni disponeva di una ricchezza di fonti come un teologo dei suoi tempi. Per esempio l’immensa opera dell’abate settecentesco Augustin Calmet, i commenti ai salmi di Sant’Agostino, alcune spiegazioni di Giobbe, dei Salmi, della Passione, testi paolini e persino un testo della pasqua giudaica”. E di fatti la grandezza dell’opera sta nelle citazioni che discendono come illuminazioni a spiegare l’inspiegabile, a mettere ragione nei dubbi, pace nelle discordie, affidamento nella disperazione. E, infine, la lezione unica rispetto alle tragedie umane sul tema evangelico del perdono. “Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia” come recita Lucia all’Innominato. L’attualità oggi è quella di “un Dio che entra nella trama in silenzio”, cioè “il vero protagonista che non si vede”, come lo ha definito Marco Ballarini, direttore della Biblioteca ambrosiana di Milano.

Il “ribaltamento delle sorti” è quanto manca alla nostra dimensione contemporanea, scavata dal secolarismo e prosciugata dagli influssi della “grazia”. Non possiamo fare a meno di osservare come la generazione precedente sia cresciuta sotto gli influssi manzoniani, oltre che danteschi. Non solo per l’obbligatorietà scolastica, anche per come la cultura sociale era intrisa di questi temi. La Rai servizio pubblico dedicò al romanzo due spettacolari sceneggiati, con i quali sono cresciuti gli uomini e le donne degli anni Sessanta e Ottanta. Il primo lanciato nel 1967 per la regia di Sandro Bolchi, con la sceneggiatura di Riccardo Bacchelli, interpretato da un cast memorabile. Mi riferisco ai Promessi sposi in 8 episodi in bianco e nero, con Nino Castelnuovo (Renzo Tramaglino) e Paola Pitagora (Lucia Mondella) e altri indimenticabili della prosa televisiva. Ventidue anni dopo è stato il regista Salvatore Nocita a calarsi nel romanzo per una produzione da 20 miliardi di lire di allora, con 248 attori, 10mila comparse e un cast d’eccezione: Alberto Sordi (Don Abbondio), Burt Lancaster (il cardinale Federico Borromeo), Franco Nero (fra Cristoforo), Fernando Rey (il conte zio), Helmut Berger (Egidio), F. Murray Abraham (L’Innominato), Dario Fo (Azzeccagarbugli), Valentina Cortese (donna Prassede) e Walter Chiari (Tonio). Se noi concediamo la sopravvivenza cristiana solo alla fiction di Don Matteo facciamo un torto alla nostra produzione mediatica.

Cosa si vuol dire con questo? Esisteva nei piani dei governi passati una politica non solo democristiana, ma cristiana, di quel cristianesimo inteso come patrimonio identitario, culturale, artistico, il fronte più fertile e inequivocabile del made in Italy. Svuotato e aggredito dagli anni della contestazione, e oggi della rivoluzione dei generi, la caratura culturale ha perso il suo vantaggio e il mondo ha smarrito quel concetto di “bene” sul “male” che fa piombare giovani e società nell’angoscia e nel buio delle violenze. Non sono forse attuali I promessi sposi che, affrontando i soprusi di Renzo e Lucia, rendono universale il tema dei soprusi degli umili? E l’ambientazione storica patriottica, etica, di denuncia non richiama forse i nostri tempi? La peste e la guerra. Le ingiustizie e la fede.

Poi gli esodi. Quando nell’aula magna della Pontificia università risuonano i versi di “Addio ai monti”, il brano interpretato con suggestione dall’attrice Isabel Russinova su musiche di Fabio Lombardi, si coglie il distinguo tra le invasioni odierne e “quell’Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente” che connotano la radice italiana. Una radice che non va smarrita e che nell’impegno di forze politiche, intellettuali e storiche occorre ricostruire smantellando la trash culture senza cedere alle suggestioni delle facili audience. Per questo “un Governo di resurrezione italiana” non deve limitarsi a confrontare i dati di un pubblico smarrito e disabituato con il progetto nazionale. La sfida è riprogettare la virtù del sapere mediatico come approdo delle dimensioni travagliate degli uomini per omologare l’industria culturale europea al fronte di speranza e non al baratro dei conflitti. Non si può tornare al passato, ma il futuro richiede un nesso e nuove proposte. In questo senso studiare Manzoni è una virtù, non una perdita di tempo. Ha confessato in chiusura Gianfranco Ravasi di aver trovato un testo dei Promessi sposi in italiano anche nella libreria privata di Lev Tolstoj. Non possiamo smarrire noi il senso e la memoria.

Aggiornato il 17 ottobre 2023 alle ore 15:06