Quando le macchine si imposero in Occidente, i processi industriali si ingigantirono, l’Europa viveva l’estremo anelito di costituire il centro del mondo, l’epoca imperialista, il neoromanticismo venne scosso, l’uomo doveva essere asentimentale, incrudelito, sciupa donne, che però si rifacevano quali sciupa uomini, battagliante, ammiratore della guerra, colonialista. L’arte ne riceveva i battiti, versi storti, ritmati su scoppi, rovine, cozzi. Musiche dissonanti: quadri in movimento, cuboidali, trapezoidi.
La velocità! Insomma, l’uomo nuovo, tutto motore, aeroplano, dinamite, sangue nelle gengive. Gabriele D’Annunzio cercava di attingere al passato senza perdere il presente, come se andasse in aeroplano nel XV secolo, Giovanni Pascoli restava nell’uomo antico, non che trascurasse il secolo XX ma non celebrava il macchinismo. Giosuè Carducci aveva inneggiato al progresso ma il meglio di Lui era antico, tra intimità e solennità. E natura. In queste temperie ebbe un posticino anche Aldo Palazzeschi.
Ricordo quando e perché conobbi Aldo Palazzeschi, il 15 ottobre del 1965, a Castel Sant’Angelo, in Roma (o il Teatro dell’Opera?). L’occasione, il Premio di poesia Fiuggi-Fiera Letteraria, il massimo di quel momento, ero stato premiato per il mio primo testo: “La conclusione”, editore Vallecchi. Palazzeschi presiedeva la commissione giudicatrice. Fu per questo che tra una folla vociferante mi venne incontro un anziano signore piccolo e paffuto, con festosa accoglienza, invitandomi a sedergli accanto. Lo riconobbi dalle immagini che lo riguardavano leggendo di lui.
È straordinario in una vita poter congiungere molte epoche, sembra impensabile che una generazione tocchi generazioni lontane, incontri che nella nostra adolescenza ci figuriamo inconcepibili, uomini che ci appaiono staccati da millenni, e poi, invece, così, naturalmente, li vediamo, anzi, addirittura entrano, più e meno intensamente, nella nostra vita.
Chi avrebbe immaginato che un “provinciale” quale ero io, a Messina, nell’arco di qualche anno, giovanottissimo, avrebbe pubblicato su “Nuovi Argomenti”, pubblicato con Vallecchi, stabilito rapporti di amicizia con Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi, Rafael Alberti, Renato Guttuso, Anna Magnani, Vasco Pratolini, Mario Luzi, Vittorio Sereni, per non dire i miei coetanei, Alberto Bevilacqua, Enzo Siciliano, Dacia Maraini, Alberto Asor Rosa, Bernardo Bertolucci, Lucio Villari, Walter Pedullà, Antonio Debenedetti.
Rapporti non sullo stesso livello di intimità, ma, con taluni, del tutto amichevoli, e questo di colpo, per la pubblicazione di un saggio su “Nuovi Argomenti” e di un volume di poesie. Esisteva una “integrazione” culturale, allora, oggi inimmaginabile. O non so, forse esiste anche oggi.
Palazzeschi mi parlava, si complimentava, dichiarò che mi avevano scelto all’unanimità. Era per natura effusivo, non solo, voleva esserlo. Sentivo che gli occorrevano relazioni di simpatia, animato da un accaloramento reale, come si dice: fanciullesco. Di aspetto, così vicino, mi pareva un cinghialone marronastro, con guancioni che gli coprivano occhi scurissimi, e un colorito di pelle non meno scurito, un gran faccione rustico, mentre di parlata e di modi era misurato, appropriato di termini, toscaneggiante, e, dicevo, con disposizione alla simpatia, signorilmente, come un appartenente a quella che diciamo la buona borghesia del tempo che fu. Eppure l’uomo corpulento e cordiale che mi stava accanto aveva attraversato le temperie del XX secolo, senza rifiutare le più estreme.
Della giuria del Premio Fiuggi Fiera Letteraria, rilevanti due personalità con cui ebbi, dopo, rapporto continuativo: Enrico Falqui e Salvatore Battaglia. Falqui era, credo, di origine sarda, capelli al modo di Pietro Mascagni o di Galeazzo Ciano, lisci e schiacciati sul capo, occhi marroni al modo sardo, asciutti, anneriti rispetto al tipo siciliano, una figura alta, snella, da epoca fascista, ci teneva ad essere o a passare per “bell’uomo”. Viveva con la scrittrice Gianna Manzini, più in età di lui, in effetti una vecchina, ma ancora femminile, civettuola, di maniere salottiere, dalla pungente aneddotica. Erano, l’uno e l’altra, fedeli alla prosa d’arte, alla pagina ben scritta in bella e tradizionale lingua italiana. Figurarsi che ne pensavano di un Moravia, di un Pasolini! E, in generale, dell’impegno dello scrittore. Falqui tuonava dalle pagine de “Il Tempo”, di cui era redattore culturale. Con un accanimento tanto feroce quanto del tutto non considerato da Moravia, Pasolini...
Salvatore Battaglia viveva in un diverso spazio. Era, insieme a Carlo Bo, il cattedratico più decisivo per le carriere accademiche, alto anch’egli, siciliano, aveva disposizione saggistica non di semplice recensione come Falqui. Battaglia, e pure Falqui, volevano tenere lontana la letteratura dall’impegno politico, ma Battaglia si coinvolgeva in certe problematiche etico-sociali, ad esempio sul deperimento del “personaggio”, tematica cruciale degli anni Sessanta, alla quale dedicò il suo miglior testo Giacomo Debenedetti.
A considerare oggi, uomini come Falqui, ma soprattutto Battaglia, e vi aggiungo Palazzeschi come artista, cercavano di evitare che l’ideologia si sovrapponesse al giudizio estetico, l’opera vale non per l’orientamento ideologico ma per la capacità espressiva, quale che sia l’orientamento. E però, in mani alquanto aggressive, come le mani di Falqui, avveniva una sorta di contro-impegno, e, persino, un contro-impegno in antitesi alla sinistra. Non bastava esprimere il proprio mondo, destra, sinistra, né destra né sinistra, purchè fosse un mondo efficacemente espresso, ma bisognava non essere di sinistra anzi contro la sinistra, per Falqui. Era, sotto la veste del non impegno, un contro-impegno, un impegno dall’altra parte, o la celebrazione del disimpegno. Tutte posizioni improprie, almeno nell’arte, che ha sempre raggiunto la poesia, diciamo, con professioni di scetticismo, di fede, di abulia, di ateismo e quant’altro. Comunque, gli ultimi fuochi di queste lacerazioni si ebbero negli anni di cui scrivo. Poi, all’ideologismo si sostituì la mercificazione: l’opera vale in quanto vendibile e reclamizzabile. Oggi è la diffusione con i mezzi di comunicazione che imperversa.
Andavo a trovare Salvatore Battaglia dove egli insegnava, Napoli, nella sua casa, Mergellina, credo, vedevo il più bel panorama di una città tra le più belle. Stava affaticandosi al vocabolario della lingua italiana, mi pare con Utet, aveva appena pubblicato un saggio, “Mitografia del personaggio”, vi citava il mio testo su “Nuovi Argomenti”. Un pomeriggio, non udendolo da qualche mese, lo chiamai, mi rispose la sua giovane compagna, e mi disse che Salvatore stava male. Morì in poche settimane. Un’assurdità, una contronatura, se la natura potesse contraddirsi, egli costituiva una vera presenza, affabile, narrativo, una cadenza lievemente sicula, sfogliava la sua memoria di versi, pagine, curiosità, dava sapore alla cultura!
Falqui e la Manzini vissero lungamente. Un giorno a Falqui si staccò un trombo, e mezza Roma intellettuale vigilò sugli eventi. L’esito fu il peggiore. Dopo pochissimo tempo scomparve anche la Manzini, un amore di anziani, e poi da vecchi, con Falqui, che si portò eccellentemente i suoi anni, cavaliere della fragilissima Gianna, che alla fine della vita era di una esilità evanescente. Figure all’antica.
Palazzeschi è un marginale nella nostra letteratura, nel senso di anomalo, tutto se stesso, pur avendo traversato le esperienze pubbliche, non si identifica in esse. Futurista, anche crepuscolare, anche surrealista, provò molte varianti espressive sia formali, sia tematiche. Celebre il modo con il quale irrise al crepuscolarismo mortuario, era un vitalista, un celebratore della salute, della giovinezza, della bellezza, pur cogliendo la sofferenza che la bellezza può suscitare.
Esemplare a riguardo il suo romanzo più noto, “Sorelle Materassi”: due sorelle non sposate che si trovano in casa un nipote bello e giovane, del quale subiscono ogni volontà, quasi che alla bellezza e alla giovinezza tutto è sacrificabile. Erano temi del decadentismo che Palazzeschi tratta senza estetismi, con realistica crudeltà, e con ironia, l’essenza è che bellezza e giovinezza danno valore alla vita oltre il bene e il male, soggiogano.
C’è il Palazzeschi ammaliato dai ricordi del passato, al modo di Guido Gozzano, il Palazzeschi che coglieva il perire del passato, e lo servava ricordandolo: così “Stampe del ‘800”. Più complessa la sua vena surreale, con il grottesco personaggio di Perelà. La sua opera è vasta. L’ho detto: Palazzeschi è del tutto estraneo a qualsiasi impegno che non fosse l’espressività del suo mondo. È un modo di essere che il doppio moralismo, cattolico e marxista, ha oscurato, ma che va risarcito, perché, ovvio che sia dirlo, il fondamentale impegno dell’artista, dovrebbe essere fare arte, il resto conta per altri fini. Al dunque, Aldo Palazzeschi, fu uno scrittore impegnato a fare lo... scrittore.
Nella memoria pubblica Palazzeschi resta per un minuscolo nucleo di poesie: Rio Bo, La fontana malata, E lasciatemi divertire, quest’ultima quasi una professione di fede estetica ed etica: “gli uomini non dimandano/ più nulla dai poeti,/e lasciatemi divertire!”, che era il modo per “salvare” l’arte, in una società prosaica. L’ultima volta che vidi Palazzeschi, per l’invito allo spettacolo in televisione tratto da “Sorelle Materassi”. Infagottato in un cappottone, con cappello a larghe falde, il faccione e gli occhi aggrediti dalla carnosità gli davano l’aspetto di un capo banda dei film ganghisterisciti americani, era nervoso, brusco, penso che lo inquietasse il risultato dello spettacolo. Se ne stette muto, in se stesso per l’intera proiezione. Non un sorriso, non una parola. Il suo “divertimento”. La sua solitudine.
Aggiornato il 03 ottobre 2023 alle ore 09:55