Negli anni Sessanta si chiamavano complessi, ora si chiamano band, anche se suona male, quasi sacrilego, chiamare band Beatles o Rolling Stones, gruppi sacri anche se non per questo ricordati con devozione delle generazioni contemporanee. Ma ora, quelli che dobbiamo chiamare Boomer, perché così vogliono gli amerikani, hanno nostalgia inconfessata, detestano Ultimo e Blanco e si accapponano ascoltando Help o Words. Si isolano dal mondo con i loro vinili, che ricreano la stanzetta analogica di allora. E quando nella testa gira e rigira una canzone di cui non trovano il disco, nemmeno scaravoltando i cartoni sopra l’armadio, allora di nascosto si accontentano del digitale e poco amato YouTube, la democrazia del pentagramma universale. Certo, rivedere dal vivo gli idoli di allora sarebbe riprendersi musica e giovinezza insieme. Ma chi? Dei fratelli Gibb sopravvive uno solo, per quelli (un po’ tanti) che non hanno visto i Beatles a Genova nel 1965 e volessero recuperare con molti decenni di ritardo ci sarebbe Paul McCartney, considerando Ringo Starr meno autorevole. Da qualche parte ci sono anche Mick Jagger, e un rimasuglio di Procol Harum, ma la ragazza di quel lento fa la nonna altrove.
E poi, dove si esibiscono questi rimasugli di miti? In Europa, negli States, in Giappone? Sotto casa, molto difficile. E allora, si prova con cover band o tribute band. La cover cerca di riprodurre l’atmosfera di vari stili del passato, non riuscendoci quasi mai. La tribute è specializzata in un complesso o in un cantante. Ma chi ama quell’epoca, chi la conosce davvero, chi ha rigato i quarantacinque tirandoli dentro e fuori dal giradischi fino a consunzione, chi ha ascoltato Abbey Road in raccoglimento davanti a sacri cassoni stereo, non perdona alcun errore, fosse anche una vaga sfumatura. E chi, invece, perdona è perché non conosce quel gruppo, e nemmeno quegli anni. Non ha orecchio musicale, né passione maniacale. Il grosso delle cover è costituito da orde di improvvisatori, donne con voci potenti, convinte che questo basti per essere Mina, e poi infiniti Battisti, in genere totalmente privi del suo carattere e ancora di più del suo timbro, impossibile da imitare se non ci si chiama Gianni Donzelli degli Audio 2.
Una tribute band non si improvvisa. Ci vuole preparazione, passione, dedizione, perfezione maniacale e, soprattutto, non si deve pensare mai di essere semplici imitatori: in un mondo di approssimazione chi è perfetto nel riprodurre è un vero artista che entra nell’animo dell’originale e si sostituisce a lui dimenticando di essere nato decenni dopo. Si immedesima nel modello, scrivendo anche musica nuova che non è facile distinguere da quella del musicista originale. E se è difficile fare tutto questo, ancora di più lo è mantenere la modestia e il senso del reale, accettando di interpretare ogni sera gli stessi pezzi, con (quasi) identica passione, e persino lasciando che qualcuno identifichi il gruppo come copia e basta, incapace di altro. Uno su mille riesce a fare tutto questo, e raggiunge la perfezione e l’equilibrio dei Tree Gees, la migliore tribute band dei Bee Gees. In Italia e in Europa sicuramente.
I ragazzi italiani raramente conoscono le parole di queste canzoni, ma, ad esempio, moltissimi giovani olandesi, assicura il frontman Alex Sammarini, cantano in coro Run to me e altri capolavori. Il perché non lo sa, ma è così. I Tree Gees si esibiscono regolarmente al Fonclea, minuscolo, ma autorevole covo romano di musica vintage, ma poi girano il mondo, sulle navi, nei teatri, persino negli stadi, come le star internazionali. I prigionieri dei propri anta e dintorni escono dai loro concerti e stanno bene. Perché la musica in maggiore genera sorrisi. Pochi “ai miei tempi sì che”, tanti volti sognanti, coppie che si vogliono più bene e si guardano come allora. Perché l’Heaven non è mai too much. Questo mondo ha perso il suo splendore. Cominciamo una nuova storia.
Aggiornato il 12 settembre 2023 alle ore 09:48