Guido Piovene, uno scrittore aristocratico

Tempi oscurantivi per talune personalità che non sono riconducibili al luogo comune e alla comunicazione facilitata. Un narratore drammatico conosciuto nella mia giovinezza e che frequentai, sporadicamente ma intensamente, fu Guido Piovene. Lo ritengo il più drammatico, perché segreto, muto più che silenzioso, di scarsissima comunicazione. Certamente con meandri psicologici, tortuosi e, suppongo, tormentati. Piovene era un aristocratico vicentino e dell’aristocratico aveva, per così dire, la pelle. Una pelle infantile, rosa, bianca, un viso tondeggiante, capelli da giovane forse biondo-rossicci, poi, diminuiti, mantenevano l’ingiallimento naturale o forse provocato, erano dell’esilità, della finezza, della leggerezza che spesso connota un aristocratico. Occhi larghi, pressoché senza palpebre, di un azzurro raggelato, una civetta non li avrebbe avuti di più freddi e fissi.

Di media altezza, solido, se non robusto, parlava un linguaggio parco di aggettivi e dipanato dal suo interno. Non erano le letture, le conoscenze, la cultura, insomma, ad animarlo, ma qualcosa di suo che egli sentiva, viveva. Misurato in ogni suo atto, non dava l’apparenza di uno che vocifera, che ama il palcoscenico, che esce da se stesso, anzi, l’opposto: più recluso di Piovene non conobbi altri, allora. A Milano, Piovene abitava in una delle zone più eleganti della città, Palazzo Belgioioso, prossimo di casa di un altro “muto” del nostro panorama letterario, Carlo Bo. Carlo Bo era di un silenzio stentoreo, per dirla paradossalmente. Alto, con il bastone, la voce piena, borbottante, lo si doveva interpretare, più che dialogare. Un uomo che racchiuse in certi periodi quel che si dice “potere”, nel decidere i destini di un libro e di un autore. Credo che con Piovene avesse avuto una questione di donne. Se non ricordo male, la bellissima Marise Ferro, che fu sposa di Carlo Bo, lo era stata di Guido Piovene, ma non giurerei, sul ricordo. No, fu così.

Piovene è l'autore più narrativo del nostro Novecento centrale. Disgraziatissimamente i suoi romanzi non hanno niente della leggibilità senza peso, scorrente, di un Italo Calvino o della leggibilità semi-poliziesca di un Leonardo Sciascia. I romanzi di Piovene sono veri romanzi. Fu, credo, l’unico, dopo Italo Svevo e con Alberto Moravia, a possedere la cognizione strutturale del romanzo e a non confondere il romanzo con la novella, il racconto e cose del genere. Il che invece accadeva e accade frequentissimamente. Era di quei veneti in cui la psicologia sfocia nella psicoanalisi anche involontariamente, e la colpa, il desiderio, il piacere, il pentimento, la malvagità, risultano avvinti dando sfogo a delle narrazioni complicate, più che complesse, con personaggi tra il diabolico e l’ingenuo. De Sade, “I legami pericolosi” di Lanclos, Diderot de La Monaca, Manzoni de La monaca di Monza, Freud, già con Lettere di una novizia furono consustanziali in Piovene. Otteneva stima e rispetto tra persone che non si scoraggiavano alle difficoltà, Benedetto Croce, ad esempio, ma il suo pubblico fu scarso, né del resto egli si concedeva al pubblico, non immaginava di scrivere a misura del pubblico.

In tal senso è un raro caso, poi duplicato dallo sventurato Guido Morselli e in maniera completamente diversa da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, di scrittore a sé stante, aristocratico non soltanto per nascita, ma per lo stare a sé, dicevo, il non concedersi al lettore. Per costoro scrivere vale come espressione della loro personalità che vive quel che sente di vivere e non va mai oltre se cerca di accontentare l’esterno. In epoche bene o male tutte “impegnate”, da quella fascista a quella postfascista, epoche eminentemente ideologiche, Piovene non ebbe vita facile come narratore. Eppure, torno a dire, pesando il valore letterario e strettamente letterario, senza essere interessati a ciò che è extra letterario, ma determina la fortuna dei libri, frequentemente, Piovene è con Svevo e Moravia, il solo narratore, anzi il solo romanziere del Novecento italiano. Maturava romanzi tremendi (Le stelle fredde), nei quali la tortuosità dell’animo umano, che gli veniva certamente dall’influenza cattolica del peccato, la colpa, il piacere, lo scrupolo, aveva sviluppi, dal punto di vista espressivo, rari nella nostra letteratura, che non ama i personaggi complicati, del resto non li ha, o rari, dicevo, oltretutto in un linguaggio duro, asentimentale, rasposo nella scrittura di Piovene.

Non ebbe vita facile Guido Piovene e suppongo fosse un suo rovello costante, quel suo tratto apparentemente sereno, più distaccato che sereno, quel suo parlare poco, quel suo sguardo gelato e raggelante, vitreo, di imperturbabile osservatore, celavano la cognizione di un’epoca inadatta alla complessità, nella quale bastava gridare un’ideologia per montare sul palcoscenico, mentre il valore letterario in sé non veniva avvertito, perfino sabotato. Fu questo l’altro aspetto dell’egemonia comunista, ma non solo dell’egemonia comunista, tutti chiedevano allo scrittore di schierarsi. Ora non è che Piovene non avesse delle convinzioni, era un uomo di libertà, era tutt’altro che comunista, ma non ne faceva una bandiera come scrittore. Il romanzo non doveva valere per l’ideologia. E che questa fedeltà alla scrittura in quanto tale la scontasse è vero per il passato e per il presente. Piovene è un autore pressoché dimenticato.

Non conosceva i brani che avevo dedicato alla sua opera nel mio saggio su Nuovi Argomenti, così mi disse, e quando ci conoscemmo in un convegno ad Assisi, gli riferii che avevo scritto su di lui e gli mandai le pagine che lo riguardavano. Quando veniva a Roma, ci incontravamo, era sempre insieme alla moglie Mimì Pavia, una signora elegante del bel mondo milanese, che gli fece da autista, diciamo, nel magnifico, consistente viaggio in Italia che Egli compì, scrivendone, dove anticipava i cambiamenti della società italiana, da contadina ad industriale, da povera a consumistica, e gli effetti che tutto ciò avrebbe avuto nel costume. A Roma, io frequentavo, anche, la scrittrice Flora Volpini, legata, legatissima a Piovene negli anni dell’occupazione, mi pare, e lo nutriva, lo accudiva, oltre ad esserne la donna in tutti i sensi. Piovene, di botto, un giorno, fece la valigia lasciandola.

Di questa fuga, la Volpini non guarì e sebbene ridanciana, divertente, aneddotica, e, bisogna dirlo, frequentatrice di molti uomini, di cui, talvolta, narrava intimità esilaranti, ebbene la Volpini non ne guarì, e questo accrebbe la leggenda di un Piovene serpentino, triplice, quadruplice, nascosto. Cassetti segreti. Non so, io conversavo bene con Piovene ed oltretutto molto a lungo, aveva un’ingenua conoscenza filosofica, ma non rivelava il meglio nella conversazione, era nello scrivere che dipanava le sue traiettorie divergenti e onnilaterali, nella conversazione dava un minimo. Doveva stare solo con la sua mente per rendere.

L’ultima volta che lo vidi, fu come se non lo avessi visto. Abitavo a Via Sicilia, accanto a Via Veneto, a Roma. Se ci incontravamo con Piovene sostavamo da Doney, il famoso bar. Una sera, passando, notai, sull’ingresso del bar, un uomo curvo che quasi cedeva su se stesso, sostenuto da una donna ancora energica, era Piovene retto da Mimì Pavia. Mimì Pavia mi colse e mi indicò a Piovene come a dire “Guarda, c’è Antonio Saccà”. Piovene fece un gesto di diniego, non mi voleva incontrare. Io vidi di traverso la situazione, e proseguii fingendo di non averlo notato. Meglio non vederlo, fingere di non vederlo. Perché quel Piovene non era più il Guido Piovene del passato. Era un uomo che la sclerosi a placche stava divorando cellula per cellula. Credo si vergognasse di se stesso, della sua malattia, e non gradiva essere colto in quelle condizioni. E poiché lo rammentavo saldo, con quegli occhi grandi da civetta signorile che guardavano con una fissità trasparente, scrutatrice, penetrante e distaccata insieme, come se fossero rivolti all’altro ma considerandolo estraneo, preferivo mantenerlo così nella memoria.

Un aristocratico dell’arte in epoca subdemocratica. Una notazione. I giudizi sugli scrittori sono vincolati a letture di decenni andati, non immagino se li manterrei rileggendo. Epoca subdemocratica, ridico, nella quale la perdita di qualità spadroneggia, da far quasi rimpiangere quando un romanzo veniva prediletto per l’ideologia. Il (pre)giudizio ideologico appartiene al passato, oggi invece domina la perdita di giudizio autonomo, in quanto il lettore è orientato secondo reclamizzazione. Giudizio ideologico e giudizio orientato dalla reclamizzazione furono e sono le maledizioni dell’arte e dell’artista. Guido Piovene le patì entrambe. In questo senso fu un artista aristocratico, scrisse ciò che sentiva e per se stesso, non per un’ideologia o per vendere. E né i critici né il pubblico glielo perdonarono. Glielo perdonano.

Aggiornato il 08 settembre 2023 alle ore 13:27