Karagöz in turco vuol dire “occhio nero”, e questo personaggio variegatamente cialtroncello che prese vita dalla cultura popolare del quattordicesimo secolo non avrebbe mai immaginato che oltre il Duemila sarebbe sopravvissuto, impersonando gli stessi, identici piccoli vizi tanto diffusi nell’impero ottomano. Impersonare non è proprio il verbo esatto perché Karagöz, Karacouche algerino, e tanti altri fino al Karaghiozis greco è un’ombra colorata, che ha affascinato milioni di bambini e adulti facendoli ridere delle sue debolezze grazie alla maestria di chi li muoveva (e li muove) a contatto con una tela bianca, illuminata da candele, ora discrete lampadine. E a chi dà loro voce, sbruffona e maldestra, divertendo persino chi non conosce la lingua ma intuisce le dinamiche e le parabole racchiuse in un’estrema semplicità, per nulla banale.
È curioso pensare come la Grecia, in pessimi rapporti con la Turchia, conservi questa tradizione forse più dei confinanti anatolici. E racconti le storie di Karaghiozis con Stratiotis, il soldato, Diakos il protestatario, Vizir e tanti altri. La contrapposizione che rende attuale il protagonista è quella con Hacivat, modesto ed equilibrato, mai sognatore come Karagöz, il quale invece vive in una capanna malmessa ma pensa di poter conquistare il mondo. Teatrini per queste ombre funzionano in tutta la Grecia: discreti manifesti annunciano piccoli spettacoli, che sembrano di estrema nicchia e di scarso interesse. Così, ad esempio, a Syros, ciclade poco turistica dal passato glorioso, si arriva in un teatro-giardino nella minuscola Moscato, lontana dal capoluogo Ermoupolis.
Sei euro il biglietto, Karaghiozis snodabili in omaggio per i bambini. Il giardino è molto grande, le sedie di plastica bianca per adulti sono davvero tante, così pure quelle verdi per i piccoli, raggruppati, ma con i genitori intorno. Nessuno ha cellulari né tantomeno tablet, e arrivare in anticipo permette di trovare posti migliori, ma non di capire perché il presentatore, che sarà anche voce rauca e buffa del protagonista, si scusa per il quarto d’ora di ritardo con cui lo spettacolo andrà in scena: si sbuffa, poi ci si gira e si scopre che gli organizzatori stanno cercando altre sedie, ma infine molti rimarranno in piedi, o appoggiati a un grande albero, con i figli, o anche no: lo spettacolo sembra essere per tutti.
I pupari (chiamiamoli così per convenzione) iniziano, e subito coinvolgono i bambini, con domande a cui rispondono in coro sorridendo con tutti i denti che eventualmente hanno. Entra Karaghiozis, e poi interroga i suoi allievi, si azzuffa con un militare. Volano, fanno capriole, lui cade, si rialza, i bimbi ridono a crepapelle, gli adulti anche, perché si sa che i genitori ricevono felicità dai piccoli per osmosi. Due soli stranieri, il clima diventa irresistibile anche per loro. Tutti fanno il tifo per l’arruffone, nessuno per il saggio: è sempre stato così, dalla creazione del mondo. Primo tempo, secondo tempo, l’interesse e la partecipazione non calano nemmeno di un soffio, infine tutti a casa, qualcuno a passeggio sul bordo del mare illuminato da Blue moon, la seconda luna piena del mese che, in realtà, è gialla. Qualcuno ripete ridendo una battuta di Stratiotis, una del Deus ex machina, e poi tutti verso la nanna.
Viviamo nell’epoca dei blocchi, delle contrapposizioni totali, del bianco o nero senza mezze misure. Per cui c’è chi trarrà conclusioni affrettate, scagliandosi contro la modernità e dando retta a social che ricordano tristemente come si era felici quando si andava a scuola con il panino e al mare sulla riva del fiumiciattolo, altro che smartphone. Ecco, chi pensa questo merita una pedata da parte di Karaghiozis e una da ognuno dei suoi compagni di ventura: questa storia non vuole dimostrare che il progresso tecnologico ci rovina, ma solo che la semplicità sopravvive a fianco dei gigabyte e ogni tanto può farci respirare un’aria diversa, ricordandoci che si riesce a sorridere anche se salta il wi-fi.
Aggiornato il 01 settembre 2023 alle ore 14:11