Enrico Caruso, la voce di Giove

Il canto precede la parola. O meglio: il suono precede la parola. La parola è posteriore al suono. In qualche modo attenua l’emotività nuda del suono, che è del tutto natura. La parola aggiunge alcunché di volontaristico e mentale al suono. Il canto è una paradossale regressione ed è costituito da parole che non raffredda. Anzi, le immette nel suono. È una parola-suono, un suono-parola idoneo a trasferire in chi ascolta variazioni uditive onnicomprendenti. Con sfumature, articolazioni, moti superiori agli strumenti musicali e alla parola esclusiva, la quale del resto si veste di variazioni musicali nella poesia, nel teatro, nella prosa. Ma il canto è l’acme di tali peripezie sonore emozionali.

Cantare! Il fiato modulato, il petto ossigenato, l’emissione controllata e dosata secondo quel che manifesta: dolore, trionfo, mestizia. Massima l’idoneità a esprimere una determinata condizione emozionale. E colui che canta si rende interprete, ossia trasferisce se stesso fuori di sé. Chi ascolta, a sua volta, riceve l’onda dell’emissione, incarnandola a sua volta.

Immaginiamo di stare a New York: un teatro o un salone, il pianoforte lucidissimo, tasti di avorio come una dentiera piatta. Un annunciatore italo-americano, si capisce da come parla, un italiano americanizzato, il quale a un pubblico italo-americano annuncia che si esibirà, un tenore italiano di Napoli. Questo tenore italiano di Napoli è Enrico Caruso.

Quando Enrico Caruso canta… è difficile continuare. Che cosa doveva essere? La foresta al vento, i tuoni in lontananza, la catena dell’Himalaya, il ruggito del leone, la ninna nanna della madre? A riascoltarlo oggi, con i pianoforti alquanto battitacco, ossuti, legnosi, strimpellanti, o le orchestre da schiamazzo sbrindellato per le registrazioni mesozoiche delle esecuzioni, svetta l’emanazione olimpica di Giove.

Caruso non canta, emana. Una voce enorme, sovrabbondante e flessuosa. Un fiume in piena che scorre senza sforzo negli acuti, che acuti non sono. Perché, mirabilia, conquista le note estreme per un tenore con una padronanza spontanea, mantenendo una volumetria anche negli acuti. Caruso si impossessa degli acuti con sicurezza, come se dovesse cantare una nota media, salvando senza sforzo la forza. Con tutto il rispetto per altri tenori o non tenori, questo tratto di Caruso non lo percepisco in costoro. Oppure sì, ma in casi rarissimi. Il baritono russo Dmitrij Chvorostovskij, morto a 55 anni, mi è parso senza sforzo e con gola spasmodica quasi come Caruso. È il privilegio di Caruso questa forza senza sforzo anche negli acuti e nel timbro caldo. Che significa timbro “caldo”? Caldo! Una voce che dà ravvivamento. Come legna che brucia in una stanza fredda, improvvisamente ecco un getto di calore, e lo godiamo avvertendo la diversità rispetto alla condizione precedente.

Un getto di calore vitale. Voci rarissime, un camino, sorsate di vino rosso: uno si sente avvolto, rianimato, attiva la circolazione, la voce entra nel circuito dell’energia, potenzia la disposizione a vivere, risarcisce di umanità. È un impossessamento. Ci fa sottomessi e forti, indifesi, sconfitti ma dentro la vera vita. Siamo incapaci di staccarcene. Lo sappiamo: il piacere è tale se ripete se stesso (come la distruzione che ripete la distruzione). La seduzione di queste rarissime voci che sembrano immetterci nella vera vita, potenti ma rotonde, può raggiungere lo stordimento irresistibile. Qualcosa in noi cede, dissolvendo le difese dell’io dalle emozioni e ci spingiamo in condizioni semi-ipnotiche. Chi vuole, ascolti Caruso in “Vieni sul mar”, “’A Vucchella”, “Pecché?” e persino la stra-conosciuta “’O sole mio”, che sembrerebbe logorata dall’ascolto. E non rammento le “arie” d’opera. “Questa o quella” “Ridi pagliaccio”, “Celeste Aida”, “Cielo e Mar!”, “Che gelida manina”, “La donna è mobile”.

Nell’afflusso iniziale di “Vieni sul mar” non c’è scampo: l’amata deve venire, è presa dalle reti della voce che la invita, persuasiva. Oltrepassa ogni rifiuto, spezza i dubbi, si immedesima nell’altro. E “Questa o quella”? Un cinismo sbarazzino, un prendere dove capita, davvero, la voce dongiovannistica, allegra, menefreghista. Voglio vivere così e vivo come voglio vivere! Ed il pensoso cacume di “Ridi pagliaccio”: parole lente, appesantite nel descrivere la trasformazione in pagliaccio. “Vesti la giubba e la faccia infarina”. Il derelitto sapere di suscitare delle risa, soffrendo di ridursi a tale condizione buffonesca.

La sicura capacità di padroneggiamento di ogni condizione emozionale, alta, altissima, giù, a destra, al centro, con raccordi all’emozione da esprimere. Se è gioia con gioia, e pena con pena. Ma nessuna volontà di rendersi gioioso o penoso, mai. La volontà scaturisce dall’emozione, dal sentire, non l’emozione, il sentire dalla volontà! Caruso non vuole gioire, inneggiando al piacere dei sensi, “Questa o quella per me pari sono”; non vuole spregiarsi impagliacciandosi , “besti la giubba e la faccia infarina”. Non si fa personaggio: è persona. Vive la situazione, non la recita.

L’emozione vissuta diventa espressione, non l’emozione razionalmente suscitata. La voce non vuole l’emozione, vive l’emozione, proviene dall’emozione. È naturale, spontanea. Con l’impegno di entrambi i polmoni, sicché la voce occupava l’intera espansione e sgorgava senza arrampicarsi nella testa o nel naso o gutturalizzandosi raucosamente.

Chi la riceve, percepisce la differenza fenomenica tra la voce che canta sorgiva dall’emozione e la voce che vuole suscitare emozione. La voce di petto e la voce di testa, di naso, di gola, di un solo polmone. Caruso fu, a mia conoscenza, l’orma più incisa. Cantava il sentire, il sentire suscitava il canto secondo le sue variazioni (c’è anche della tecnica, non è l’aspetto determinante). Cantava con due polmoni, la sua voce mantiene il sentire.

Le ragioni di decadenza di una civiltà? Quando la cultura superiore viene abrogata, diffamata. E si rende valido quel che non vale, perché non ha confronto con la cultura superiore. Anzi, considerare se abbiamo cultura superiore o scadente viene giudicato come un misfatto. Le civiltà reggono se l’arco comprendente mantiene il massimo e il minimo. E si confrontano. Udire certi cantanti è una offesa al canto, questo in ogni territorio espressivo. I mezzi di comunicazione stravolgono il giudizio: quanto sta nella vasta diffusione vale anche se non vale.

Taluni pensatori tedeschi sostenevano che compito dell’insegnamento è suscitare l’ammirazione per il genio. Più democraticamente: almeno non recidere la cultura superiore. Certo, quando la civiltà decade si pone in dubbio sia il genio sia la superiorità. Chi li definisce? Continuiamo su tale stradina e il precipizio è assicurato. Ascoltare Enrico Caruso, per dire, servirebbe almeno a dare cognizione di cosa può sorgere dalla voce e dal canto. Ritenere questo disprezzo superomismo, aristocraticismo, antidemocrazia è l’opposto della realtà.

Chi disprezza, abbassa la qualità, reputando incapaci gli altri. Chi stima, mette alla prova per conquiste ulteriori. Le civiltà si salvano se vi è un criterio di qualità, non una facilitazione condiscendente. Ma sia che sia, esiste la società ed esiste l’individuo. Ciascuno decida il livello della propria vita, se ancora la società non ha soffocato l’individuo, come evenienza possibile.

Enrico Caruso è nato nel febbraio di 150 anni fa. Ma è giovanissimo, l’ho udito poco fa cantare “La donna è mobile”. Un giovane ardente, una sonorità volumetrica che si espandeva nella stanza e usciva nello spazio. Mi sono affacciato al balcone e ho visto (visto!) la sua voce girare lassù, come un meteorite con le ali. Ascoltare per credere. Rientro nella stanza e che succede? Dmitrij Chvorostovskij canta. Troppa felicità? No. Felicità. Il patriottissimo Giuseppe Mazzini, quando parlava, suscitava un deliquio non per le sue idee ma per la sua voce. In Inghilterra, esiliato, ospite dei Carlyle, le gentildonne della buona società londinese lo idolatravano per la sua voce. Forse anche per le idee. Le descrizioni che la consorte di Thomas Carlyle ha segnato sembrano inverosimili, per il grado di esaltazione della voce del Mazzini.

E, assai meno clamoroso, è questo episodio. Un mio parente conteneva, manifestandola, una voce con una sonorità gradevole, liberata, in generosa esposizione. Accadde che, ricevendo una telefonata e non potendo rispondere, gli chiesi di farlo. Così fu. Chi chiamava deteneva la sonorità di una voce altrettanto ampia. Sonora. Si compiacquero tanto l’uno della voce dell’altro, che non riuscivano a staccarsi, complimentandosi a vicenda. Parlando, accrescevano il piacere di udirsi. Non ricordo come sia finita, sono passati decenni. Di sicuro non parlano ancora tra di loro in mia presenza. Tanto l’uomo cerca la ripetizione del piacere. E vi sono illimitate sorgive di felicità.

Scopo della vita è la felicità, dichiarava Aristotele. Di sicuro, una bella voce lo è! Assolutamente, occorre ridare all’estetica il posto sovrano. Gioisce la vita. Lo suggerisco alla Chiesa cattolica. Per quale condiscendenza precipitante non si ascolta che minimamente musica. Un canto dal forziere ricchissimo di musica sacra. Che è mai questa ritrosia a rivelare ciò che brilla, quasi fosse spregio al sordo d’animo! Occorre rivalutare, rivalutarci. La democrazia non sia degradazione. Non “ti vengo incontro”, ma “sali”. Anzi: “Scala”.

Aggiornato il 09 agosto 2023 alle ore 15:02