Maria Callas tra Medea e Norma

Mesi fa diedi una notizia: si sono conclusi cinquanta anni dalla tragica morte di Maria Callas. Supponevo che ci sarebbero state delle celebrazioni. Adesso Firenze la rianima e scorrerà universalmente la ripresentazione, evidentemente, delle sue interpretazioni. Il primo testo operistico completo che udii ragazzo fu “Norma”, diretto da Vittorio Gui. Norma era la Callas. Non è la Callas che interpreta Norma, assolutamente: Norma è la Callas o la Callas è Norma. Questo il punto. La “entelechia” di Maria Callas, l’unità essenziale di sé e il personaggio: la Callas non interpreta, è. Il personaggio diventa persona. L’opposto del consueto. Ho conoscenza in materia, questa trasfigurazione è rarissima e perviene ad un illusionismo vaneggiativo. La mente crede alla realtà irreale più della realtà reale, non pensa. Recitano, vivono! Decisamente Maria Callas conteneva passioni, emozioni, che scolpiva nei personaggi rendendoli persone, ricchezze espressive boschive. I giovani devono conoscere ciò.

Difficilissimo ascoltare Casta Diva dopo averla impressa da Maria Callas. La invoca, la inneggia come fosse una sacerdotessa druidica effettiva. La Sua voce colma, forte, estrema o contenuta, sotto dominio e tuttavia robusta, di chi sente quel che canta. Ci crede, lo fa proprio. La sua voce poteva esilirsi, effusarsi, limpidire, tuoneggiare, scatenarsi, vibrarsi, estendersi, ora, nell’invocazione alla Luna. La Casta Divinità luneggiava da eguagliare Il Tramonto della Luna del più lirico Giacomo Leopardi, poi diventava un pugnale sotto guanto, in continuo avvertimento di possibili tempeste. Un parlare cantando con lo sciagurato Pollione, il romanaccio donnaiolo che l’ha tradita con l’altra vergine, si fa per dire, Adalgisa, vestale anche lei, pur essendo amante di Norma, il dongiovannesco Pollione.

Come la Callas intreccia ira, desolazione per essere stata ingannata, volontà di conservare l’amante pur se ingannatore ma da lei amato. Il canto, il parlato, i cenni di rabbia, i tentativi di soluzione (lascia perdere Adalgisa e sarai salvo con me!). Bisogna ascoltare: persone, non personaggi. E il lungo colloquio con Adalgisa, la sua sacerdotessa, malinconica, venendo a scoprire che tale mestizia sorgeva dall’amore di Adalgisa per l’amante della stessa Norma, ossia Pollione. Un Pollione amante di Adalgisa e amante di Norma. E Norma lo scopre nel voler consolare Adalgisa! Bisogna ascoltarli i mutamenti della voce: da amica confortevole a desolata, furibonda, nello scoprire il tradimento. La gamma coloristica, gli altopiani, i venti, le onde delle emozioni, l’umanità nel suo reagire alle vicende. C’è di tutto: caterve emozionali, umanità in esposizione. Ebe Stignani che fa (è) Adalgisa sostiene con merito l’articolazione multi-fenomenica della Callas. Ora ripeto: queste sono manifestazioni da cui attingere fin da bambini. Moltissimi ignorano quel che non conoscono, sembra lapalissiano dirlo. Mi spiego: non riescono a sapere che esistono mondi ulteriori. La gente non sa cosa perde, ignorando quel che non conosce.

Quando ascoltai Medea, quella seria, di Cherubini, è stato difficile giudicare: voce tutta delitto e vendetta, contenuta ma in mostra di possibili rovine, e poi annientatrice efficace. Una volontà del peggior male quando lei, Medea-Callas, ancora una volta ingannata dallo sposo, il furbo ambiziosetto Giasone stermina figli e tuttavia sfugge alla punizione. A tal punto, almeno nella versione del disilluso Euripide, dove il male può vincere. La Callas fermenta per l’intera opera una voce alquanto gutturale, rantolosa, da stare a distanza sicura, una promessa di terremoti. L’opera è interamente sul filo del rasoio: soffocante, buia. Non so chi altri abbia reso la vendicatività sotto cenere, poi in fiamme come la Callas (e Cherubini).

La stessa Maria Callas che in Tosca patisce di essere offesa da Dio, dalla sorte, dolorosamente. Lei che disse “vissi d’arte, vissi d’amore, non feci mai male ad anima viva” e invece la sorte la mette in condizioni sciagurate. L’infame Scarpia se la vuole delibare in cambio, ingannevole, della salvezza di Mario Cavaradossi, patriota imprigionato nello Stato Pontificio, amatissimo da Tosca. “Perché me ne remuneri così?”. Chiede Tosca al Destino o a Dio, lei che visse per l’arte e l’amore. Bisogna ascoltare il “così”, nel modo pronunciato da Maria Callas. “Così” rovinata, umiliata, oltraggiata! Come posa le sillabe: sconfitta, incredula.

Che fare? Interrompere, salire sulla scena e baciare le mani a Maria Callas? Ormai è impossibile. Bisogna continuare ad ascoltarla, rimpiangendo di non poterla apprezzare visibilmente. E La Sonnambula, e Violetta, e la cavatina de Il Barbiere di Siviglia, e la Habanera di Carmen? Incredibile. La Callas visse ciò che recitò. Fu tradita da (Pollione, Giasone) Aristotele Onassis e morì di infelicità, solitaria. Non si vendicò come Medea, scelse Norma. Norma vuole morire con Pollione. Maria Callas volle che le sue ceneri fossero sparse dove erano state sperse le ceneri di Onassis. Solo una donna che perviene a tali estremi passionali poteva dare una vita reale ai personaggi inventati. Così l’arte diventa vita, restando arte. La Callas segnava i personaggi in maniera decisa.

Chissà, forse i mezzi di comunicazione potrebbero, come eccezione – una sera intendiamoci – trasmettere non so, Norma, La Traviata, tanto per dire. Se non è troppo chiedere.

Aggiornato il 30 luglio 2023 alle ore 10:33