La Sociologia delle forme espressive fu un modo per spiegare la Sociologia dell’Arte, ma alla facoltà di Statistica nominare l’arte era fuorilegge. Così, rimediarono nella Scuola di perfezionamento in Sociologia e Ricerca sociale e concepirono la dicitura menzionata, del resto opportuna.
Ma la questione restava problematica e di attualità singolare. La Sociologia – come la Storia, la Filosofia e persino le religioni – era vincolata alla temporalità. Gli Dei periscono, mutano gli Imperi, i popoli nascono e svaniscono, la Scienza smentisce perpetuamente se stessa, le concezioni filosofiche tramontano. Pressoché su tutto noi diciamo “era e non è più”, “valeva nel suo tempo, non vale adesso”. Stringiamo gli eventi ideali, mentali, culturali al loro tempo.
La Sociologia sigla questa relazione tra epoca e creazioni mentali. E coglie che tutto è legato a determinazioni d’epoca. E va considerato nell’epoca. Falso, falsissimo. Esiste una manifestazione che, figlia del tempo, sbeffeggia il tempo, sormonta millenni e millenni, al di là dei condizionamenti d’epoca. Eterna almeno per l’eternità umana, viva almeno per la vita umana, sentita perennemente, suscitatrice di emozioni da sempre e per sempre.
L’arte, l’arte, l’arte: questa vita trasformata (espressa) in parole, suoni, immagini pittoriche o scolpite, edificazioni, canto. Le varie teorie dei condizionamenti storici non riescono a spiegare come l’arte sormonti l’epoca. Noi ammiriamo le statue egiziane o greche, le raffigurazioni di Pompei sono sbalorditive. E lo saranno. Lo stesso le pitture egizie e tutto il resto in ogni terreno espressivo, musiche medievali, o più remote.
Le spiegazioni di chi lega ogni evento all’epoca – e poi si scopre che l’arte nasce da una epoca ma la supera – sono state improprie. Lo dico soprattutto in relazione a Karl Marx sulla persistenza dell’arte greca, ma non che diano soluzioni gli altri sostenitori della concezione che stabilisce legami tra epoca e manifestazioni dello spirito espressivo. Che invece è semplicissima.
L’arte è una conoscenza resa sensibile, non il dubbio. Piuttosto Amleto che dubita, esprime la drammaticità della scelta tra vivere e non vivere, tra vendicarsi e non vendicarsi. Non la descrizione teorica del bisogno di eroismo per evitare la banalità del vivere, ma il sentire tragicamente questo bisogno di illudersi per non deludersi dell’esistenza. Ecco Don Chisciotte e, in forma ironica, il Barone di Munchausen. E non si tratta del trasferimento di una concezione in un soggetto (Hegel) ma del rendere sensibile la concezione, vissuta, emozionale.
Ora, ecco il punto, le emozioni non periscono. Il sensibile permane, mantiene il sentire. Edipo che si fora gli occhi per non vedere l’incesto susciterà un’emozione tra duecento anni (speriamo), perché è un compimento emozionalmente espressivo, imprigiona una emozione, sprigionandola.
Questo dicevo agli studenti. E lo dico adesso. Per quale motivo? Perché l’idea di attualizzare i testi è una elucubrazione presuntuosa e anticulturale. Un autore esprime da sé e a suo modo le emozioni dei suoi personaggi. Mi riferisco soprattutto al teatro, lirico o di prosa. La capacità espressiva, da quanto detto, è già nel testo e nel contesto, l’opera vive anche nel suo essere passato, perché nell’arte il passato resta vivo, non ha bisogno di ammodernarsi.
C’è da sbattere la fronte a supporre, poniamo, che una donna morente possa esprimersi al modo tardoromantico di Mimì, al termine dolorosissimo de La Bohème. “Sono andati, fingevo di dormire perché sola con te volevo restare” strappa lacrime anche agli scorpioni che non siano proprio di quell’epoca. Ed è attuale, non perché attualizzato, ma perché mantiene la sensibilità contenuta. Per quale dissennato motivo mutare, se era perfetto come è: una ragazza alla ventura che finisce nella sventura, ma proprio nella sua epoca, perfino la tubercolosi… d’epoca!
Che si offre di meglio, che si attualizza? L’attualizzazione sta nella resa intrinseca dell’opera immessa nell’emotività che dà vita per sempre a ciò che, pur passato, è presente in quanto fa sentire le sensazioni che contiene, mantiene, manifesta. Attingere, non alterare.
L’arte non va attualizzata, perché è eterna. Arricchimenti, interpretazioni, ma non credere di attualizzare alterando l’epoca. Si frantuma l’organicità del testo. Se è arte, è viva come è. L’idea che rispettare la testualità sia passività, una privazione di inventiva, è il contrario della verità. Solo chi non capisce che l’espressione è interna all’opera, sovrappone se stesso. Fa come i cagnolini, che schizzano a ogni fiuto di altrui schizzi canini per darsi un primato. Chi ha personalità, non ricorre a tali specchiature deformanti.
Ma no, mettiamo in luce i tesori che esistono. Rodolfo, Mimì: come furono, sono e saranno. Attualizzare l’eternità! Da sghignazzare. E la politica, faccia la cortesia, si sposti. Lasci passare l’arte come è, senza compiacere qualche Amministrazione locale. Tra qualche mese, saranno cento gli anni che ci distanziano dalla morte di Giacomo Puccini. Aggiungo che sono duecentodieci anni dalla nascita di Giuseppe Verdi. Il bello dell’esistenza sta nel poter stimare. Finché stimiamo, la vita trova ragion d’essere. Noi abbiamo in territorio musicale un apogeo specie nell’opera lirica. L’abbiamo suscitata, l’abbiamo connaturata, l’abbiamo coltivata. Non vi è Paese creativo di personaggi al nostro pari. Singoli personaggi raggiungono i nostri: Don Giovanni, Boris Godunov, Carmen. Ma l’insieme lo teniamo noi (Wagner a parte). Il nostro tipo di canto per “arie”, tanto vilipeso da Nietzsche, è peculiare, comunque, insuperato. Perfino Mozart lo riprese. Perché rovinare queste architetture sonore e ambientali?
Anni fa vi fu la moda delle giubbe di pelle e delle ambientazioni naziste: moltissime opere venivano travestite in tale raffigurazione. Ma che originalità era? Originale è chi attinge alle origini del testo e lo rifulge. Dario Fo, mantenendo integro Il Barbiere di Siviglia, ebbe trovate divertenti e non sconnesse. Riccardo Muti, rispettosissimo dei testi, diede esecuzioni non dimenticate. Giorgio Strehler offrì dei Goldoni fedeli e rilucenti. Non serve cambiare epoca: meglio dare luce all’epoca consustanziale.
Comunque, non basta cambiare epoca per darsi originalità. La distruzione dell’arte sarebbe l’omicidio terminale delle nostre società. Se ben ricordo, ho perduto una scarpa gettata a un massacro esecutorio del Lohengrin all’Opera di Roma (o forse era la Cavalleria Rusticana, non so dove). Ho perduto la scarpa ma ho salvato l’onore! (In ogni caso è sicuro che il tenore in Lohengrin meritava la scarpa).
Quando all’Auditorium di Santa Cecilia, Roma, era direttore Bruno Cagli, ed all’Opera di Roma il sovraintendente era Gian Paolo Cresci, mi invitavano settimanalmente. Ricordo Sinopoli, Muti, alcuni direttori russi, una funambolica Cecilia Bartoli.
Bisognerebbe far conoscere la musica lirica. È il nostro “romanzo”, Verdi come Tolstoj, Puccini come Čechov. Oltretutto, vi sono operisti meno vistosi, Catalani, Boito, Ponchielli, Giordano, Leoncavallo, anche Cilea, con delle opere o dei brani, proprio da diffonderli all’umanità.
Cominciai a insegnare giovanissimo: narrai la Prima guerra mondiale, irresistibilmente cantai canzoni d’epoca. E mi trascinai in sonorità. Pianissimo, la porta dell’aula si aprì con timorosa cautela. E apparve il preside, con occhi ingigantiti dallo sbalordimento. Un attimo e richiuse con la medesima cautela. Suppongo che non volesse discutere con un pazzo. Non ne fece parola. I miei studenti sono passati più di cinquanta anni. Se li incontro, ricordano quell’episodio.
Non sapranno alcunché della Prima guerra mondiale, ma un professore che canta è indimenticabile. Mi piacerebbe che qualche professore cantasse in classe, oltretutto verrebbe ricordato. E soprattutto, è bellissimo il canto, il cantare. Espansione e liberazione. Bisogna dare maggior spazio alla musica, ai cori, ai solisti. Il canto è positivamente vitale.
Aggiornato il 24 luglio 2023 alle ore 14:06