C’è sempre una prima volta. Trent’anni fa il nastro della cassetta che gira nello stereo e che esplode It’s So Easy con tutta la sua carica. La stessa canzone che apre il concerto dei Guns N’ Roses a Roma. E in un sabato 8 luglio il Circo Massimo diventa teatro di uno spettacolo dove, a buon diritto, uno può dire “io c’ero”.
Sì, la band americana – per qualcuno – non sarà più quella degli anni Novanta. Eppure, le lancette dell’orologio per certi versi sembrano essersi fermate in un’esibizione durata oltre tre ore. E che l’aria fosse di quelle magiche lo si può notare subito grazie ai The Pretenders (che anticipano l’ingresso dei Guns) e a una Chrissie Hynde che, a 71 anni, ha ancora molto da dire: I’ll Stand By You è lì a dimostrarlo.
Poi, quando non sono le 20,45, entrano loro. Intorno la gente inizia a essere tarantolata. Ci sono barbe bianche, coppie con i figli, ragazzotti e chi si atteggia al più classico dei forever young. Tutti insieme, appassionatamente. Una grande famiglia che ha giurato, e giura, amore incondizionato.
Già. Perché i Guns N’ Roses puoi solo amarli. Axl Rose è il grande atteso. Soprattutto per capire se ancora la sua voce possa reggere l’urto della carica dei fan che fan giunti in uno dei luoghi più suggestivi della Capitale. Lui non delude: certo, non sarà più quello del ’92. Ma chissenefrega. Corre a destra e a sinistra, non si ferma, è tonico, coinvolgente. È ancora uno sciamano del palco.
Intorno, la vecchia guardia targata Duff “Rambo” Mckagan (il bassista sfoggia un fisico da peso medio di boxe) e Slash: il chitarrista è avvolto da un invidiabile stato di grazia, regalando perle su perle mentre la maglietta che indossa (dove compare Clint Eastwood aka l’Ispettore Callaghan) è intrisa di sudore. T-shirt che l’artista, per inciso, non toglierà mai. Da vero animale rocker.
Il resto scorre tra i successi intramontabili – Welcome To The Jungle, Paradise City, November Rain, Sweet Child O’ Mine – e nuovi innesti, come Hard Skool e Absurd. Ci sono dediche a Silvio Berlusconi e anche il sostegno all’Ucraina (prima di Civil War).
Lo show è garantito. Le scene di isteria collettiva restano negli archivi del secolo scorso. Insomma, l’esibizione valeva – e vale – il prezzo del biglietto. A bollarlo, degli arzilli ometti che hanno ancora qualcosa da dire. A modo loro. La verticale di Slash, al momento dei saluti, è il classico segnale che ribadisce: we don’t care, ce ne sbattiamo. Alla faccia di eccessi, stravizi e soliti cliché. E alla faccia, anche, dei giovani d’oggi.
Aggiornato il 10 luglio 2023 alle ore 20:03