Nella sua autobiografia, Golda Meir ricorda che, quando era bambina, in tutte le famiglie veniva posta accanto alle candele del sabato una scatoletta azzurra di latta nella quale si mettevano le offerte destinate all’acquisto di terre nell’antica patria del popolo ebraico: così il sionismo agiva, letteralmente, sul terreno; e quella scatola azzurra diventò uno dei simboli degli sforzi che gli ebrei fecero per ritornare alla loro patria. Infatti, racconta, «la “scatola azzurra” era una specie di segno di riconoscimento di tutte le abitazioni ebraiche. A partire dal 1904 fu con quelle monetine che il popolo ebraico cominciò ad acquistare vasti appezzamenti in Palestina. A tale proposito, sono veramente stufa di sentir dire come gli ebrei abbiano “rubato” la terra agli arabi in Palestina. Le cose sono andate assai diversamente. Un bel po’ di denaro sonante cambiò di mano, e un bel po’ di arabi si arricchirono enormemente. Com’è ovvio, ci furono anche altre organizzazioni e moltissimi privati che comprarono anch’essi terreno. Ma, nel 1947, il solo Fondo Nazionale Ebraico – cioè milioni di “scatole azzurre” colme di monetine – possedeva più della metà delle terre ebraiche di tutto il paese. Questo, per mettere fine una volta per tutte alla solita calunnia» (G. Meir, La mia vita).
Agli inizi del Novecento, il sogno di Sion, luogo sacro che designava la parte alta di Gerusalemme, il monte del Tempio, e da cui si sprigiona la forza dell’ebraismo (gli ebrei sono «i figli di Sion»), cominciava a diventare realtà, anche perché la grande politica internazionale incominciò a capire che il sionismo era l’unica risposta possibile che si poteva dare all’esigenza fondamentale del popolo ebraico: una terra, una patria, uno Stato. E così, il 31 agosto 1918 il presidente americano Wilson scrive al rabbino Stephen Wise una lettera di approvazione della Dichiarazione Balfour (novembre 1917), con la quale il governo britannico aveva appoggiato la creazione di una National Home per il popolo ebraico nella sua terra originaria. Fu l’inizio di un itinerario accidentato (il governo inglese si rivelò amico degli arabi più che degli ebrei, ponendo poi molti ostacoli all’edificazione della casa nazionale ebraica) ma glorioso, che condusse a un esito a lungo atteso, al ritorno a quella verdiana «patria sì bella e perduta»: trent’anni dopo infatti, il 14 maggio 1948, sarebbe nato lo Stato di Israele, dopo che il suo popolo aveva subìto da parte del regime nazionalsocialista quella persecuzione mirata allo sterminio, che provocò sei milioni di morti, tristemente nota come Shoah, l’Olocausto.
Se, giustamente, si afferma che la memoria di quella tragedia non deve essere limitata alla Giornata che ne commemora le vittime, ma va evidenziata sempre, affinché non venga confinata in uno spazio che pur con le migliori intenzioni finirebbe per musealizzarla, allora uno fra i più nobili modi per darle continuità è ricercare, riflettere e scrivere sulla Shoah in relazione a tutti gli ambiti, precedenti e posteriori, ad essa collegati, per comprenderne le implicazioni e le ramificazioni, e individuarne le tracce dovunque siano, nel passato e nel presente, nel nazismo come nel comunismo e in qualsiasi altra ideologia o forma di antisemitismo.
Se dunque onorare la memoria delle vittime e, parallelamente, condannare senza appello uomini e ideologie che le hanno causate, implica anche indagare ad ampio raggio le vicende del popolo ebraico e le connessioni storiche con esse intrecciate, delle quali il percorso che portò alla creazione dello Stato di Israele è senza dubbio la più rilevante dal punto di vista politico, e se la pubblicazione di libri è la forma più approfondita e più duratura di questo pensiero commemorante, va assolutamente segnalato un volume, appena uscito dalla tipografia, che illustra e interpreta alcuni aspetti essenziali e poco sondati di quel movimento culturale e politico che ha ridato patria e autonomia nazionale al popolo ebraico, e che è noto appunto come sionismo. Il libro di Antonio Donno, David Elber e Giuliana Iurlano (nell’ordine alfabetico indicato sulla copertina), Il sionismo americano tra le due guerre mondiali, pubblicato dalla casa editrice «Le Lettere» (Firenze) nella collana diretta da Francesco Perfetti, è infatti uno dei più interessanti esempi di questa forma proattiva di memoria.
In questo straordinario libro – accuratissimo sotto tutti i profili che caratterizzano la ricerca storiografica, politica e culturale –, il sionismo, parola suggestiva ed emblematica, sulla quale si sono riversati grandiosi affetti e miserabili odii, viene investigato nella sua dimensione americana (e in tutti i suoi annessi geopolitici e diplomatici) negli anni tra il 1918 e il 1939, cioè in uno spaziotempo cruciale per le sorti del popolo ebraico (e, come si evince dai saggi dei tre autori, per l’intera storia del Novecento), penetrando nei risvolti teorici e pratici di questo movimento, e in particolare di quel suo braccio che operò negli Stati Uniti, nel paese che maggiormente contribuì all’autodeterminazione del popolo ebraico nella sua forma statuale.
Nel periodo perimetrato da questo libro, la personalità centrale in America fu Louis Brandeis, che Giuliana Iurlano (autrice di un precedente, fondamentale, testo intitolato Sion in America, Le Lettere, 2004) così descrive: «un progressista convinto […], ma non era affatto un radicale […], un intellettuale razionale, un lucido analista […], figlio del suo tempo, parte integrante di quella che la storiografia ha definito “l’età di Wilson” […] e che si estende dal 1890 al 1920». Parte tanto integrante da essere nominato dal presidente Wilson, nel 1916, alla Corte Suprema. La sua manifestazione di pubblica simpatia al sionismo avviene intorno al 1910, e da quel momento vi si dedica con tutte le sue forze e, come scrive ancora l’autrice, riesce a mostrarne la fattibilità: «non un’utopia irrealizzabile, ma un obiettivo concreto, perché il sionismo si configura storicamente come un movimento nazionale ottocentesco», del quale Brandeis diventa «l’organizzatore» in terra americana.
In ambito europeo il suo analogo fu Chaim Weizmann, «il più importante portavoce del movimento sionista in Inghilterra», capace di «introdursi nei circoli più esclusivi delle élite dirigenti britanniche», ma soprattutto, sottolinea l’autrice, ideatore «dell’Università ebraica», di «un istituto superiore di cultura ebraica» che potesse dare nuova linfa alla lingua e allo spirito del suo popolo, perché questo era «l’unico modo per coniugare l’aratro e il libro», la realtà presente con la tradizione.
Il sionismo novecentesco ha non solo realizzato il sogno di Israele, ma ha anche sostanzialmente unito in quella realizzazione i due principali orientamenti all’interno dell’ebraismo del primo Novecento rappresentati, nel caso specifico, da Brandeis e da Weizmann, e simboleggiati, scrive Giuliana Iurlano, da Washington e da Pinsk (città nel triangolo di confine tra Bielorussia, Polonia e Ucraina, luogo mitico e tragico dell’ebraismo europeo: all’inizio del secolo erano ebrei oltre tre quarti dei suoi abitanti, e con l’occupazione nazista furono letteralmente annientati). Brandeis e Weizmann – americano e più pragmatico il primo, europeo e più tradizionalista il secondo –, pur concordando sull’obiettivo, divergono spesso sulle modalità, ma nel 1939 convergono su un punto decisivo: la condanna della sostituzione della Dichiarazione Balfour con il White Paper, con il quale la Gran Bretagna rinunciava al Mandato: Brandeis, osserva Antonio Donno, «condivise pienamente il punto di vista di Weizmann», il quale, «pur da anglofilo», approvò «le accuse che venivano rivolte al governo britannico» a causa dei suoi numerosi andirivieni fino appunto alla ricusazione del Mandato.
Fra le date cruciali dell’itinerario istituzionale e diplomatico sionista, due spiccano non solo per la formazione dello Stato ebraico ma anche per l’intero assetto mediorientale: 18 gennaio 1919, Conferenza di pace di Parigi; e 20 aprile 1920, Conferenza di Sanremo. I due eventi vengono esaminati da David Elber da una prospettiva non solo storiografica, ma anche politica e culturale.
Un esempio: Elber riesce a mostrare come accanto agli svariati interessi materiali che ogni nazione occidentale aveva intorno all’assegnazione del territorio per la nazione ebraica, vi fossero residui ideologico-religiosi che la ostacolavano. Quando Weizmann incontra il presidente francese Clemenceau nell’ambito della Conferenza di Parigi, quest’ultimo lo gela con una frase del tutto extra-politica: «noi cristiani non possiamo perdonare gli ebrei per aver crocefisso Cristo». Sembra incredibile, un capo di Stato europeo, francese e quindi politicamente laico per definizione, usa una delle più fallaci (e più ottuse) argomentazioni antisemite di un certo cristianesimo messo alle corde poi anche all’interno del mondo cattolico (basti pensare a Papa Giovanni Paolo II che si rivolge agli ebrei chiamandoli «fratelli maggiori»). Eppure, commenta Elber, questa frase, «che racchiude bene duemila anni di antigiudaismo cristiano», fu davvero pronunciata, perché Clemenceau «vedeva minacciate le prerogative francesi in Terra Santa dalle richiesta ebraiche». La questione territoriale ebraica polarizza il sostegno britannico (poi tramutatosi in indifferenza) e la diffidenza francese, motivata dal rischio che gli interessi di Parigi venissero compromessi dal nuovo assetto mediorientale, al punto da far riemergere «il plurisecolare astio antiebraico presente nella cultura europea». Poi la Francia farà la sua parte, in positivo, ma l’episodio resta emblematico.
Altro esempio: nelle prime elaborazioni del testo del Mandato per la Palestina (1922), riferisce Elber, «era stata cancellata completamente dal preambolo la frase relativa alla “storica connessione del popolo ebraico con la Palestina” e alla necessità di “ricostituire la National Home in quel Paese”». E solo dopo le reiterate e veementi proteste di Weizmann presso le autorità britanniche, quelle proposizioni cruciali vennero inserite. Come si vede, l’appoggio inglese non era stabile, nonostante il movimento sionista avesse formato una Legione Ebraica nel corpo di spedizione britannico contro i turchi. Uno dei motivi marginali ma non irrilevanti di queste oscillazioni è costituito dal fatto che, negli anni intorno al 1917, all’interno della comunità ebraica inglese una parte non esigua era – paradossalmente – antisionista, al punto che, chiarisce Elber, «riuscì a instillare numerosi dubbi in vari ministri sull’opportunità e il beneficio» della Dichiarazione Balfour.
Questo sostegno a intermittenza era il segno che i paesi europei non erano del tutto affidabili, mentre dagli Stati Uniti, che pure anni addietro esitavano ad appoggiarla, iniziavano ad arrivare indizi positivi concreti. Se Wilson avvia il percorso della Jewish National Home, a fare qualche deciso passo in avanti è Roosevelt, il quale, come spiega Antonio Donno (che fra l’altro è uno dei massimi specialisti di storia degli Stati Uniti), fu sensibile alle sollecitazioni che la comunità ebraica americana (e mondiale) gli rivolgeva accogliendo le tesi di Weizmann e Ben-Gurion, secondo i quali «occorreva cogliere al volo l’occasione storica che avrebbe successivamente permesso allo Stato ebraico di allargare i propri confini». Certo, osserva Donno, «le espressioni di simpatia del presidente Roosevelt per la causa sionista erano interpretate come sostegno politico del governo americano», ma la simpatia non era sufficiente. Occorrevano denaro e ingaggio politico ufficiale. Nel giugno 1939 Roosevelt dichiarò il suo appoggio all’Organizzazione sionista americana, dimostrando che – scrive ancora Antonio Donno – «il liberalismo newdealista di Roosevelt concepiva il nazionalismo sionista come l’espressione genuina di un popolo che, dopo aver sofferto secoli di persecuzioni e di stragi, ambiva di ritornare nella propria terra, Eretz Israel».
Decisivo e imprescindibile fu il sostegno di nazioni autorevoli sul piano diplomatico e potenti su quello economico, ma fondamentale fu la forza d’animo che gli ebrei organizzati riuscirono a sprigionare, perché, annota Giuliana Iurlano, «l’arma più forte del popolo ebraico è il suo spirito». Il perfezionamento di quest’arma avviene poi anche sul campo, con la progressiva consapevolezza della necessità di difendere il territorio e la popolazione che via via si stavano estendendo e accrescendo; e poiché l’aggressione araba non era solo politica ma anche militare, l’aumento degli armamenti in quantità e qualità divenne una necessità assoluta, una questione di vita o di morte, come si sarebbe visto successivamente con le guerre arabe del 1948, del 1967, in quella libanese del 1982 e poi in tutte le numerose aggressioni che svariate organizzazioni terroristiche palestinesi, arabe, libanesi, perfino iraniane hanno scatenato e continuano a lanciare contro lo Stato ebraico.
Proprio perché esprime il sogno millenario del popolo ebraico, la nostalgia di un intero popolo, il dolore per un ritorno non ancora avvenuto, il sionismo non è tanto una creazione concettuale o politica, bensì un’idea che si trova nell’anima di tutti gli ebrei, e quindi è un movimento spontaneo che sorse e crebbe negli ebrei di tutta Europa negli ultimi anni del XIX secolo e che poi si diede un’organizzazione pragmatica. Ora, poiché, sul piano macrostorico moderno, nella prospettiva della storia delle idee e in quella delle realizzazioni politiche, una delle vicende più rilevanti dell’epoca moderna è la creazione dello Stato di Israele, il sionismo in quanto motore effettivo di questa creazione rappresenta una delle teorie più importanti della modernità. Quando si parla infatti della potenza delle idee, uno degli esempi più pregnanti è Sion. L’idea di Sion ha posto fine alla bimillenaria diaspora degli ebrei e ha offerto soluzione a quella che Theodor Herzl, nel 1896, aveva definito la Judenfrage, la questione ebraica in sé e per sé, cioè sia in quanto questione che riguardava direttamente e internamente gli ebrei e che essi sentivano come tale, sia in quanto problema di cui le nazioni occidentali avvertivano la responsabilità nei confronti degli ebrei in esse residenti. Inoltre, Sion è la figura che, in generale, racchiude l’essenza del radicamento di un popolo in una terra, e quindi, dal punto di vista concettuale, ha validità universale. Così diceva infatti il grande mistico Dov Ber, il Magghid di Mezeritch (oggi Mežyrič): «Sion è un assoluto nel mondo; è la vita di tutti i paesi».
Per ampiezza di visione, precisione analitico-ricostruttiva e qualità interpretativa, l’importanza di questo libro si estende ben al di là dell’ambito tematico indagato, non solo perché, ripeto, tocca uno dei gangli essenziali della storia contemporanea, ma anche perché fornisce elementi per comprendere meglio la storia di Israele e quella degli Stati Uniti, per capire il senso profondo, metapolitico (spirituale) delle relazioni fra Stati Uniti e Israele. E al tempo stesso, essendo anche un libro di carattere concretamente storico-culturale e politico, ci fa capire perché e come gli Stati Uniti siano diventati il riferimento principale di Israele (e del popolo ebraico in generale) su scala mondiale. Non a caso è negli Stati Uniti che si è sviluppata un’organizzazione a suo modo straordinaria come i «Cristiani Sionisti», che da un lato fornisce una risposta implicita ma ultimativa alle tendenze antisemite presenti in una porzione, minoritaria ma pur tuttavia reale, della cultura cristiana, e dall’altro lato indica la via da percorrere affinché Israele sia sempre più fiancheggiato da gruppi, organismi e istituzioni in grado di diffondere la verità sul suo passato e sul suo presente.
Oltre all’importanza fondamentale per la costituzione dello Stato ebraico, il sionismo possiede infatti anche una rilevanza culturale, politica e geopolitica di estrema attualità. Sionismo e occidentalismo si intrecciano e si rafforzano a vicenda: senza l’Occidente (cioè senza alcuni Stati occidentali) non ci sarebbe stata la nascita di Israele; senza l’idea di Sion l’Occidente sarebbe incompleto e quindi non sarebbe pienamente se stesso. E il rapporto fra Israele e il resto dell’Occidente è mediato e vitalizzato da Sion, da un’idea che diventa realtà o, più precisamente, da un’antica realtà (Sion patria originaria) che nel corso dei secoli è stata costretta a sublimarsi in idea (Sion simbolo della patria perduta) e che, alla fine, è ridiventata realtà (Israele come concretizzazione statale-nazionale di Sion).
E in forma analoga, questo ricchissimo libro è di storia e al tempo stesso di vita, perché accanto alla descrizione e all’analisi degli eventi politici fa vedere i drammi delle persone che li animano, che li realizzano o li subiscono, la passione e la tensione, la dedizione e l’assoluta determinazione di un popolo; un libro che mostra anche il tessuto esistenziale delle vicende storiche del popolo ebraico, portandone così alla luce quella che Miguel de Unamuno chiamava la «intra-storia», della quale la scatola azzurra, nella sua sublime semplicità, è una delle immagini più potenti.
(*) A. Donno, D. Elber, G. Iurlano, Il sionismo americano tra le due guerre mondiali, Le Lettere, Firenze 2023, 227 pagine.
Aggiornato il 06 luglio 2023 alle ore 09:43