Eugenio Montale lo conobbi in un dipinto di Carlo Levi. Come ho scritto, Levi amava ritrarre i personaggi e le persone. Un mattino, nel suo largo studio a Villa Borghese, tra le cataste di quadri, vidi il volto di un giovane dagli occhi lustri, come avvinazzato o estatico, mi parve Montale e ne chiesi a Levi. Era Montale. Mi stupì quell’occhio brillo, Levi confermò con aria rispettosa, come a dire: un poeta. Anche Pier Paolo Pasolini, che esaltava Umberto Saba, era riguardoso di Montale, citava: “Esterina, i vent’anni ti minacciano”, e gli piacevano al palato, gustava la dizione. Persino Alberto Moravia nominava Montale con seriosità, laddove Montale sosteneva che Moravia aveva scritto di buono soltanto Gli indifferenti, come Pietro Mascagni esclusivamente Cavalleria rusticana. Leggendari, gli aneddoti su Montale, perfino più celebrati di quelli su Carlo Emilio Gadda. Sia Gadda sia Montale avevano uno stuolo di agiografi, e, magari a tavola, era un’esplosione di fuochi ascoltarli narrare dell’uno o dell’altro, in ambienti diversi e con persone diverse.
Il poeta fiorentino Piero Bigongiari, ad esempio, che talvolta ospitava Montale, celebrava il Montale povero e ammirato del benessere della casa di Bigongiari, tanto da rimanere impressionatissimo del frigidaire e da sostenere che vi sarebbe entrato un vitellone. Domenico Porzio, uomo di rilievo della Mondadori, narrava di incredibili silenzi del Montale, di avarizie minuscole, davvero sorprendenti in un uomo del genere, dell’incredibile rapporto di Montale con la moglie, detta la Mosca. Non erano racconti ammirabili, tutt’altro, ma chi li diceva, al contrario, ammirava Eugenio Montale, al quale era concesso tutto, lo si celebrava in piccinerie, sgarbi, durezze, malumori, facevano corona al “poeta”, giacché questo era l’essenza. Montale teneva l’aureola di poeta assai più di Giuseppe Ungaretti, che l’avrebbe voluta per sé, e si credeva coronato per qualche esibizionismo nel parlare e nel mandare in alto gli occhi. E, invece, fu lo schivo, scontroso, silenziosissimo, bofonchiante Montale che impressionò la sua generazione e quelle in avanti assai più d’ogni altro poeta che recitava ad apparire poeta. Con il giovanile Ossi di seppia si incise come artista e come personaggio. Per sempre. E fu, nel bene, un male.
Io conobbi Eugenio Montale da morto. Mi trovavo a Milano il giorno in cui Egli morì, e seppi della salma esposta, il giorno dopo. Prestissimo mi recai, non ricordo dove, non era la sua abitazione. C’era Domenico Porzio, pochissimi altri, la gente sarebbe giunta dopo. Piccolo, Eugenio Montale! La morte riduce il corpo, ma Egli era, steso, una minuzia. In abito blu, come se invitato a cena, cravatta, camicia, fazzoletto nel taschino, scarpe nere, il volto di un dormiente placato, nessuna contrazione, nessuna amarezza per dover morire, le labbra diritte, e di colpo un naso forte, eminente, imperioso, e la fronte serrata da capelli radicati, fronte chiusa, concentrata, ostinata, dove più che la vasta fantasia dominava un mondo ristretto, intimo, solitario. Nessun segno di un volto attraversato da passioni, devastazioni, tutto l’opposto di un Ezra Pound: lo incontrai a Spoleto, Pound, ero insieme a Pier Paolo Pasolini. Aveva, Pound, una qualche somiglianza con il nostro Giuseppe Mazzini da vecchio, magro, anzi scarno, patito anzi afflitto, le guance ferite, solchi a taglio, color terreo. Pound ascoltava la recitazione di poeti, Pasolini, credo pure Salvatore Quasimodo, e cambiava coloritura secondo l’emozione, poi, quando i versi uditi non lo impressionavano se ne rimaneva fermo, tenuto al bastone, seduto in un palco, statuario, ma senza alcuna vanità. Era chi era, così come era.
Al tempo nel quale Eugenio Montale esordì come poeta o si era comunisti o si era fascisti o si era liberali o si era socialisti o cattolici o si era agnostici. Montale non era, e ci teneva a non essere. Per dirla filosoficamente, egli si definiva negandosi. Fu un colpo al cuore dell’epoca, la quale, invece, ostentava identificazioni, contrapposizioni, e spartiva il mondo in essere e non essere, verità e menzogna: Montale era nella renitenza a identificarsi in una determinazione (anche se l’indeterminazione è una determinazione). Della condizione umana non decifrava la ragion d’essere. Né perché esistiamo, né perché esiste l’insieme. Talvolta, quasi in delirio, scorgeva il vuoto dietro e avanti a sé, e per sottrarsi all’angoscia si corazzava con la “divina indifferenza”. Concluse stabilendo che poteva riconoscersi nel non essere e nel non volere: “Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Questo di sé poteva dire. I versi di tale professione di (non) fede, erano afoni, lenti, procedevano senza ritmo, senza rima, sovente, appesantiti da gravami malinconici, da annebbiamenti, mai uno slancio, una festa musicale, un impeto vitale, una turba erotica. Le parole se le coniava nel gergo marino o non corrente. Raggruma, condensa, infittisce, narra liricamente con passi strascicati. Il sole non è presente, la giovinezza è negli altri. Fu un colpo al cuore all’epoca, ripeto, allora tutti facevano, talvolta realmente, gli eroi, e il linguaggio volava aquilescamente e pareva che gli uomini reggessero le briglie dell’Universo e della Storia. Anni Trenta-Quaranta. Alberto Moravia aveva insinuato l’indifferenza, Eugenio Montale il nulla capire dell’insieme, dell’essere.
Fisso le scarpe di Montale, nere, lucide, un piede minuto, lo hanno vestito come se si recasse a una cena di persone distinte, davvero la Morte ha ricevuto poche volte un convitato così a modo. Da quel piccolo uomo steso a dormire, sembra, sono venute composizioni osannate: Dora Markus, La casa dei doganieri, e i volumi, dopo Ossi di seppia, Le occasioni, Satura. Sempre quel perenne non sapere, non prendere parte, assistere, non dipanare il cruciverba dell’esistenza, sempre la “storia” considerata una sarabanda di omicidi, sempre quel non decidersi a vivere non sapendo come vivere. Non sapere come vivere! Incredibile. C’è la vita, la società, gli altri, e lui, Montale, non sapeva come vivere, per che vivere, “vissi al cinque per cento”, diceva di sé, rimaneva “sulla soglia”, per citare Luigi Pirandello. Vien da sorridere. Al gran vociare di certezze, valori, identità, Montale non si faceva trarre nel fanatismo che spesso si innesta nella “verità”.
Che belle mani, anzi, non belle, curate, levigate, piccole e allungate, dovevano stringere appena, carezzare le cose, mi parevano pennelli. Gliele avevano incrociate sullo stomaco, e accrescevano quel portamento di persona per bene, ordinata. Se ricordo, non siamo in chiesa. A meno che non sia un’esposizione per il pubblico, non so se il funerale fu religioso. Devo riconoscere che quello stanzone deserto, con le poche persone caute intorno alla bara, si adattava al silenzioso Montale, un uomo che voleva sottrarsi all’esistenza più che viverla. E così, mi dicevo, se ne va per una via secondaria, da clandestino. D’altro canto, lo insegnavano i grandi scettici indiani e poi greci, se non sai decifrare il mistero della realtà o non ti scaraventi nella prima ideologia faziosa, vivere è impossibile, non sai, letteralmente, come vivere. Ma vale la pena d’essere un fanaticuzzo o meglio restare sulla soglia dell’esistenza? Fu il dilemma di Montale, che preferì rimanere al margine. Divenendo, nelle ultime opere, un manierista di questo rifiuto, per la fama acquisita gli fu consentito di versificare ormai senza alcuna ispirazione, il risultato negativo del trionfo iniziale.
Mi venne un dubbio. Com’era possibile che in un corpo tanto limitato esistesse una forte voce baritonale? Montale era appassionato di musica, e cantava, bene, dichiaravano i suoi narratori. Chi sa, forse il pudore dei sentimenti espressi direttamente, li manifestava cantando, in tal caso riusciva a essere “sentimentale”, e lo “scordato strumento, cuore” vibrava ancora, e il sentire non gli appariva una concessione all’irrazionalità, a una immedesimazione nella vita che non riusciva a consentirsi, perché, è il punto cruciale, non sapeva come vivere. Con il canto si lasciava andare. Eppure, non riesco a immaginare Montale che canta, specie in pubblico, magari tra sé e sé, come del resto nelle poesie, molto spesso espresse con il “tu”, un parlare solitario, unica compagnia il se stesso, lo sdoppiamento dell’uno, mentre, “fuori”, la società imperversa in orrori ed errori, che possono considerarsi verità e “vita” esclusivamente se qualsiasi fare sbandierato, e ciecamente, appare risolutore, laddove il mistero dell’esistenza resta e quel poco di umanità la dobbiamo più alla reciproca convinzione di non sapere che alla furiosa certezza di sapere. Montale o dello scetticismo. Me ne vado a passi muti. Non voglio destarlo. Forse è ancora su quel catafalco. Un sonno eterno, non la morte. Era il 1981. Aveva 85 anni. Non li dimostrava. Montale è poeta esistenziale, non fu un esistenzialista alla francese, alla tedesca, sfiorò il nulla, il non capire, l’enigma dell’essere ma lo estese in argomentazioni aggrovigliate alla francese, alla tedesca. Il “nulla” lo sentiva non lo argomentava. Il panico di vivere l’incomprensibilità dell’esistenza. Non una teoria, uno stato d’animo. Non si dimostra, esprime. Poesia, non filosofia.
Aggiornato il 15 giugno 2023 alle ore 09:15