Il Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università Roma Tre al Castro Pretorio ha organizzato una giornata di studi dal titolo Albert Camus alla ricerca di un nuovo umanesimo: per i 110 anni della nascita (1913) del grande intellettuale francese, figura centrale della cultura europea del Novecento. Un’iniziativa ideata da Luigi Fenizi, scrittore ed ex consigliere parlamentare del Senato della Repubblica; e realizzata poi col forte impegno dei docenti ordinari di Roma Tre Marina Geat e Marco Giosi. Un convegno dedicato, inoltre, alla memoria di quattro coraggiosi intellettuali: Arturo Diaconale, Luciano Pellicani, Giuseppe Averardi e Luigi Covatta.
Ad Albert Camus, Luigi Fenizi, collaboratore di varie testate e autore, tra l’altro, di saggi su Varlam Salamov e il dissenso sovietico – e con una biografia, “in corso d’opera”, dello scrittore lituano-francese Romain Gary – ha dedicato un intenso saggio, “La condizione assurda - Albert Camus, il male ed io” (Scienze e lettere, 2005). Mentre ne “Il secolo crudele”, una raccolta di interviste immaginarie ai grandi, nel bene e nel male, del Novecento, ne ha dedicato una ai due celebri amici-nemici, Camus e Sartre. Con Fenizi abbiamo voluto parlare appunto di questo convegno di Roma Tre e del lascito di Camus al mondo del Duemila.
Fenizi, anzitutto che bilancio vi sentite di trarre, voi organizzatori, di questa giornata di studi camusiani a Roma Tre?
Molto positivo: un pubblico attento, fatto soprattutto di giovani studenti, e interventi tutti di relatori qualificati. Ringrazio vivamente il rettore, Massimiliano Fiorucci, la direttrice del Dipartimento, Paola Perucchini, e gli amici docenti, Marina Geat e Marco Giosi, per tutta la puntuale organizzazione. I relatori si son soffermati su vari aspetti: come il rapporto, in Camus, tra natura e storia, e la sua sensibilità anche ai temi religiosi (Marco Giosi), la tormentata ricerca della memoria del padre, caduto in guerra quando lui aveva solo tre mesi (Marina Geat), Camus educatore tra estraneità e solidarietà (professoressa Anna Aluffi Pentini), il teatro di Camus. E ancora, la sua visione dell’Europa, il suo impegno politico, i suoi rapporti con Jean-Paul Sartre e Ignazio Silone, il suo complesso rapporto con l’Algeria; aggiungo, in ultimo, le testimonianze dirette dello scrittore Ernesto Marzano (che conobbe di persona Camus a Parigi negli anni Cinquanta) e di Romolo Tranquilli, nipote di Silone.
Nella sua relazione Lei ha indagato sulla tematica dell’assurdo e della rivolta in Camus. In che senso va intesa, nella sua opera, la visione “assurdista”? E che differenze ci sono, a proposito sempre di questo tema, con Sartre, anch’egli esistenzialista?
Diversamente da Sartre, in cui l’assurdo attiene alla contingenza generale dell’essere, in Camus l’assurdo è una sorta di divorzio tra l’uomo e la sua vita, tra l’attore e la scena, diciamo. L’assurdo, per Camus, parte dall’impossibilità, per l’uomo, di dare alla sua esistenza un significato che non sia solo contingente: l’impossibilità, insomma, di soddisfare quel forte bisogno di assoluto che è insito in lui (e non parlo, qui, solo sul piano religioso, cioè del rapporto con Dio).
In quali opere Camus affronta questa tematica?
Soprattutto nel “Mito di Sisifo”, del 1942; testo che, partendo da una splendida rivisitazione del mito greco di Sisifo, parla dell’eterna fatica dell’uomo, che al termine dell’esistenza, si ritrova ad aver vissuto una vita non solo il più delle volte tormentosa, ma anche senza senso. Cito esplicitamente il testo di Camus: “Un mondo che possa essere spiegato, sia pur con cattive ragioni, è comunque un mondo familiare; ma, viceversa, in un universo spogliato di illusioni e di luci, l’uomo si sente un estraneo, in esilio e senza rimedio: perché privato dei ricordi di una patria perduta, o delle speranze di una terra promessa”. L’uomo che capisce di essere “assurdo”, prosegue questo grande scrittore, non è attratto né dall’eternità ultramondana (di cui parla la religione), né da quella ridicola eternità che chiamiamo posterità. Ma, solo fra tutti, sa di essere innocente, e quindi si sente legittimato a protestare fortemente contro l’ingiustizia e la morte, chiedendo benevolenza per tutte le creature della terra.
E come si collega a questi temi l’altro tema essenziale della rivolta?
La rivolta si ricollega all’assurdo appunto per reazione: è, al tempo stesso, grido metafisico e impegno nella storia contro l’oppressione, la violenza, l’ingiustizia. Su questa Terra, l’uomo scopre la finitudine, il dolore, lo strazio della morte; ma uscendo dalla sua individualità, scopre negli altri la vittima che egli stesso è, e, al tempo stesso, scopre anche il male che porta in sé. “La peste”, altra grande opera camusiana, è centrata proprio su questo: per essere veramente giusti, dobbiamo essere capaci di guardare al dolore degli altri, prima che al nostro.
Quasi dieci anni dopo “Sisifo”, nel ’51, esce “L’uomo in rivolta”. Qual è il senso preciso di questo libro?
In questa straordinaria opera, Camus sottopone a critica il mito della violenza rivoluzionaria nella cultura europea: con le sue nefaste conseguenze, di ben prima dello stalinismo. E mette a fuoco la differenza tra i concetti, apparentemente simili, di rivolta e rivoluzione: mentre il primo è ancora in qualche modo legato all’idea di misura, al rapporto tra rifiuto e consenso (non a caso, nel mondo antico non esistevano ancora rivoluzioni, ma solo rivolte), il secondo scade per sua natura nella smisuratezza repressiva, quindi nella tirannia. Camus - che in questo, quindi, si colloca a buon diritto accanto ad Orwell, Koestler, Arthur London, Richard Wright, Ignazio Silone e gli altri fustigatori delle dittature - si esprime in modo illuminante: dopo una rivoluzione, scrive, si può essere solo oppressori, o eretici, non ci sono altre possibilità. E aggiungerei, per dirla con le parole di un’altra grande eretica, Simone Weil: “Bisogna essere sempre pronti a cambiare di parte, come la giustizia, questa fuggiasca dal campo dei vincitori”.
E che conseguenze ebbero queste posizioni di Camus nell’intellighenzia europea di allora, tenendo presente anche che eravamo prima del ’56, della denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin?
Ed eravamo anche prima dell’Ungheria, contro la quale il destalinizzatore Kruscev non avrebbe esitato a lanciare i carri armati, proprio come Stalin... Voglio dire, per capirci, che queste posizioni procurarono a Camus la forte ostilità non solo dei comunisti (memori già della sua rottura col Pcf del 1937), ma anche di vecchi amici e compagni di lotta al di là delle diverse idee politiche: come anzitutto Sartre. Camus rifiuta la divinizzazione hegelo-marxista della storia, come le pericolose fantasticherie sull’ “uomo nuovo”: a lui interessa l’uomo vivente, cioè la creatura destinata dapprima a soffrire, e poi a morire. E la giustizia non è un’astrazione filosofica o ideologica: ma l’impegno paziente e coerente nella storia, un lavoro riformista continuo, un impegno solidale per cercar di creare un mondo migliore, o almeno diminuire la sofferenza degli altri. Proprio come i “cafoni” siloniani: non a caso, nel ’57, sapendo di aver ricevuto il Nobel per la Letteratura, Camus avrebbe detto, alla madre di Simone Weil, che quel premio, in realtà, sarebbe dovuto toccare a Silone, non a lui. Anche questa ammissione, ricordando il premio Nobel, ci dice dell’umiltà e della grandezza di Camus: in cui Hannah Arendt ha visto, giustamente, l’ammirevole connubio di una persona e di un’opera.
Aggiornato il 19 maggio 2023 alle ore 09:33