In questa società, in queste società che cercano di oscurare il passato, per contrasto il passato spesso viene memorizzato all’eccesso. Meglio ricordare che dimenticare, anche se non viviamo soltanto di passato. Dunque, sono andati via sessant’anni dall’esplosione de Il Gattopardo. In un seminarietto che tengo per continuare a mia volta il mio passato di docente ho parlato de Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e di un altro scrittore che non ha lo stesso clamore di Tomasi, Guido Morselli, ma vale. E notavo che i migliori testi narrativi del XX secolo, di Tomasi e Morselli, nacquero postumi! Tomasi morì senza vista del su libro edito, Morselli si uccise anche per non essere stato edito. Nel XX secolo!
Ad Agrigento celebrano il sessantesimo anno de Il Gattopardo, ne fanno in Sicilia una serialità da spettacolo visivo, e verrà ricordato anche Leonardo Sciascia. Al dunque, la Sicilia. Tomasi e Sciascia sono aspetti della Sicilia, la Sicilia aristocratica, la Sicilia democratica. Il Gattopardo è la conclusione di una lunga vicenda, origina da Giovanni Verga, passa per Federico De Roberto, forse pure Carlo Alianello, e anche Luigi Pirandello: il trauma della conquista regia del Nord. La fine della mentalità aristocratica del vivere di rendita, “esteticamente”, sostituita dal vivere utilitaristicamente, da borghese. La fedeltà dell’aristocratico Principe di Salina al vivere estetico laddove il nipote, Tancredi, accoglie di mantenere il potere convertendosi all’utilitarismo borghese.
Stavolta non è il neoborghese Don Gesualdo che sposa l’aristocratica esangue Bianca Trao, come in Mastro Don Gesualdo, è Tancredi aristocratico che sposa Angelica, figlia di un famelico nuovo ricco. Tomasi, con maggior consapevolezza di Alianello, traccia la fine della mentalità aristocratica, e, per un aristocratico, la fine della civiltà. Aristocrazia: non lavorare, eredità della Magna Grecia.
Leonardo Sciascia è di tutt’altra visione. Come Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia ebbe un ruolo non solo in campo estetico: la loro opera fu significativa nella società indipendentemente dal valore artistico, che si stacca dagli effetti sociali dell’opera. Pasolini e Sciascia entrarono da impolitici in politica, non come politici, ma come persone moralmente accese da non poter restare appartate mentre avvenivano casi pubblici cruciali.
Curioso che sembri, un Alberto Moravia, apparentemente in piazza, interessato all’accadere, aveva ritrosia a prendere posizione sulle evenienze, e concepiva l’artista racchiuso nella scrittura, giungeva a sostenere che lo scrittore che compie battaglia pratica palesava limiti creativi. Moravia si riferiva, però, agli artisti in azione, Ernest Hemingway, André Malraux, Gabriele D’Annunzio. Pasolini e Sciascia non furono artisti in azione, a meno che non si consideri azione la scrittura, nel qual caso restiamo in ambito “letterario”. Ma la questione è cruciale. Tutto il danno dell’arte impegnata, della valutazione ideologica dell’arte dipende dalla confusione tra il prendere posizione, anche operativa, e il valore dei testi. Al dunque: se tu prendi posizione per una certa parte sei artista, per quelli della tua parte; altrimenti non lo sei. Fu, e resta, la catastrofe della valutazione ideologica dell’arte, e dell’artista, il quale può avere una concezione ma occorre che giunga all’arte, non basta “il punto di vista” o agire.
Posso condividere il punto di vista di uno scrittore ma avere riserve sulle sue capacità espressive. La premessa è indispensabile perché tutta l’esistenza di Leonardo Sciascia sta sulla verticalità di essere uomo di impegno, ma non impegnato; uomo di ideali, ma non di ideologie. Impegnato e ideologico è colui che si affida a una concezione e si convince che è nel vero, che non occorre auto-criticarsi, che gli altri hanno torto, che egli ha la formula della verità e dell’arte, che la sua parte è il tutto ed è bene per tutti. Uomo di impegno e di ideali è chi lotta e ha convinzioni ma discute, cerca, può contraddirsi, può cambiare opinioni, accetta l’alterità, ne tiene conto, e non per sfociare in mescolanze grigie ma per non essere un fanaticuzzo totalizzante al quale chi sa chi ha largito certezze ultimative in questo mondo di cui ignoriamo le fondamenta.
Sciascia definiva questa sua posizione critica, laica, illuminista. Ricordo un confronto di Sciascia con Renato Guttuso, Guttuso a dichiararsi convinto uomo di parte e di partito, Sciascia a presentarsi dubitante, pronto a cambiare valutazione, il che, sia chiaro a scanso di equivoci, non significa non avere convinzioni, significa non inchiodarsele per dirsi “coerenti”, significa ragionare sulle convinzioni. L’uomo che palesava una fermezza calma nel diritto-dovere del ragionare sopra le convinzioni era piccolo, robustello, quando lo conobbi, non molto chiomato, e quel che aveva di chioma lisciata sulla testa, un volto con mascelle indurite alquanto sporgenti, gli occhi castani, attenti, in palpebre gonfie, di pelle abbronzata sul mattoncino, considerarlo un nordafricano era il minimo, voce lenta, parlata puntigliosa, distinguente, e una accentazione che di più siciliane non se ne reperivano, o, da me udita, solamente quella di Gaetano Martino. fumava in modo estremo, al grado del suo fraterno amico Renato Guttuso.
Era di un garbo, di una semplicità, di una minimità essenziale di parole, tutte da prendere sul serio, al contagocce, interiorizzato, con improvvise risate che gli storcevano il viso tondeggiante e gli spaziavano la larga bocca in una smorfia fanciullesca e sofferente insieme, e così siciliana che mi sembrava di stare in un paesino interno a “contemplare” i volti millenari dei miei compaesani, non fosse che in Sciascia gli occhi si stringevano e la pupilla si acuminava quasi che quel ridere fosse un comprendere la condizione umana non soltanto il rapimento di una vicenda momentanea. Perché Sciascia, al fondo, era un “metafisico” ossessionato dal “male” sulla terra e dal “mistero” dell’esistente. Un pirandelliano di stretta osservanza. Ci vedevamo con Guttuso. Non posso dire che si facessero conversazioni, Guttuso era fluviale quanto Leonardo laconico, ma se c’era da precisare non demordeva, ed era magnifico in sé, e per me siciliano, stare insieme a quei due “aspetti” della Sicilia, l’estroverso Guttuso, e il riservato Sciascia, dico aspetti della Sicilia perché c’è un modo siciliano di estroversione e di riservatezza.
Guttuso si sbracciava, diceva, guardava Leonardo per avere risposta, muoveva l’immortale sigaretta, Sciascia stava tutto in sé, fumava, ovvio, guardava o chinava gli occhi, non dava segno, ma se dichiarava qualcosa Guttuso riannodava i suoi argomenti e li ridipanava a grandi gesti. Mi pareva, Guttuso, un innamorato che cercava di convincere la fanciulla. In effetti, Guttuso aveva un’amicizia affettuosissima per Sciascia, ricambiata. E non si trattava di semplici affetti. Se non ho memoria errata, quando su L’Unità Michele Rago ardì criticare Sciascia, Guttuso lo fece saltare all’istante. Cavalleria rusticana! Ma, incredibile, Sciascia era voluto bene da Moravia a Pasolini a Rafael Alberti a Carlo Levi, per fare qualche nome. Ancora più incredibile, senza barriere ideologiche.
Forse l’essere Sciascia uomo di impegno ma non impegnato, di ideali ma non ideologico, aveva scavalcato tali barriere. Ricordo il critico Enrico Falqui, notissimo anticomunista, parlarmi con stima di Sciascia, a non dire di Salvatore Battaglia, cattedratico e galantuomo, anch’egli anticomunista, siciliano, che in qualche modo lo consacrò, ma Battaglia era uomo estetico non ideologico. Vi furono situazioni in cui Sciascia mostrò il suo laicismo, nel senso detto, con discrezione e coraggio. Quando abbandonò il Partito comunista al Consiglio comunale di Palermo, e non era cosa da poco, a quei tempi; quando fu con i radicali deputato europeo; quando pubblicò Il giorno della civetta (1961), dando inizio a romanzi brevi di giallo, poliziesco, politica, costume, racconto filosofico, narrazioni che furono considerati volteriani, egli stesso gradiva fossero considerati tali, e molto, molto alla lontana lo sono. Furono romanzi o racconti filosofici che dalla mafia alla difesa della laicità dello Stato costituiscono una novità e una rarità nella nostra letteratura.
Sciascia scovava con passione filologico-civile, diciamo, i punti in cui lo Stato cedeva e doveva combattere per affermarsi, ad esempio contro e sulla mafia, per l’autonomia dalla chiesa (Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D., 1969), per la libertà critica. Celeberrimo, a riguardo, L’Affaire Moro, 1978, allorché contestò che soltanto la classe politica fosse in grado di intendere le missive del Presidente rapito giudicandole estorte e quindi assolvendo sé stessa dai pessimi giudizi o dalle proposte che Aldo Moro formulava per essere salvato. A riguardo Sciascia venne addirittura in urto con Guttuso per delle considerazioni di Enrico Berlinguer, segretario del Partito comunista, dal quale Sciascia si era recato, con Guttuso, in soccorso a Moro.
Berlinguer avrebbe sospettato servizi segreti anche stranieri, quando Sciascia lo rivelò, Guttuso smentì, e Sciascia ritenne la coscienza ideologica di partito incompatibile con la verità. L’equilibrismo di Sciascia fu arduo: da un lato voleva uno stato laico e forte, ma non tale da pervenire alla ragion di stato. Uno Stato ove il giudizio critico dei cittadini non avesse ostacoli e la morale fosse indipendente dalla religione e dallo stato etico, però uno Stato capace di imporsi alle “deviazioni” interne ed esterne. Ne viene, ribadisco, un riproposto illuminismo, laicismo, quasi ci trovassimo nel XVIII secolo. Sciascia riteneva, infatti, che non vi sono conquiste definitive e la corruzione nello Stato e avverso lo Stato, la perdita dell’autonomia di giudizio del singolo che diventava subalterno a ideologie politiche e religiose fossero pericoli attuali. Diceva Alberto Moravia che Sciascia era un illuminista capovolto: partiva dalla ragione e giungeva al mistero.
Vero. Sciascia dubitava assai che la ragionevolezza, l’uomo critico, autocritico avrebbero vinto. Si batteva. Ma nel suo cosmo prevalevano il delitto e la faziosità. Era uno sconfitto? Per niente. Al contrario dei “professionisti dell’antimafia”, come li definiva, non credeva alle vittorie a parole, a proclamazione, pesava realisticamente la forza della corruzione e del fanatismo! Del “male”. E non mentiva che non esistesse. Lo si praticava. In questa guerra volteriana contro il fanatismo da segnalare le appassionate indagini per salvare le scritte delle vittime di inquisizione a Palermo, a Palazzo Steri, facendole trarre, le poche non sparite, dai muri ove deperivano, per memoria di esse, lo aiutò Giuseppe Quatriglio del Giornale di Sicilia, oltre a dedicare a Diego La Matina, un frate che uccise l’inquisitore don Juan de Cisneros, 1657, il testo: Morte dell’inquisitore, 1964. Sempre per salvare la cultura emarginata un vero monumento sono le edizioni Sellerio, da lui curate, che stamparono meraviglie per i bibliofili, i curiosi, gli spiriti liberi.
Lo vidi l’ultima volta credo nel 1984. Passeggiavo con Franco Ferrarotti a Piazza Colonna, a Roma. Scorgo un uomo che mi pare di conoscere e che si dirige verso di me, da vicino ho certezza di conoscerlo, ci salutiamo affabilmente, ma, di colpo, mi sorge perplessità: è Leonardo Sciascia o Gaetano Arfè? Arfè era direttore dell’Avanti e storico, amico dal mio soggiorno a Firenze, somigliante a Sciascia da parere Sciascia. Il sole di fronte mi barbaglia la vista! Dico, non dico, prometto di inviare la mia biografia di Karl Marx allora uscita, per l’uno o l’altro andava bene, sì, manda, non presento Ferrarotti in quanto temo l’equivoco, non so che aggiungere, forse Sciascia restò sorpreso del mio atteggiamento, quando lo incontravo vi era sentita cordialità.
Al dunque, ci salutiamo. Era, quando capii, il solito Leonardo, piccolo, color mattone, con gli occhi franchi, cercatori di verità. Un maledetto morbo lo ridusse un’apparenza. E poiché scrivo di uomini, il dispiacere di non averlo salutato con affetto in quel che fu il nostro ultimo incontro mi suscita una colpa che non ho ma che sento. Bisogna aver conosciuto Leonardo Sciascia per trovare in un uomo umana comprensione, riguardo per l’opinione altrui, ragionevolezza, sorriso, piacere della cultura, dell’aneddoto, e poter discorrere di Montaigne, di Stendhal, di Voltaire, non dico Luigi Pirandello, e di libri e autori sconosciutissimi ma vere sorgenti! Perché Sciascia era un “moralista” ma un bibliofilo che godeva e rispettava la varietà delle forme mentali e vitali, le diramazioni dell’esistenza. Con garbo e a voce lenta.
Aggiornato il 17 maggio 2023 alle ore 19:24