In questa epoca di ricorrenze sovradeterminate, il 110° anniversario della nascita di Elsa Morante (Roma, 18 agosto 1912 – Roma, 25 novembre 1985) è fluito come un vento dietro l’angolo, spento e muto. Ho ben conosciuto la Morante, la personalità più convinta dei sogni palingenici. Certo, chi non ha avuto illusioni non sta dentro la vita. ma chi non ha riconosciuto le delusioni non sa far tesoro della vita. È stata un’illusione credere in una società più giusta, in una libertà esercitata e non soltanto promessa, in una dignità riconosciuta ai lavoratori nell’ambito del lavoro, in una loro capacità di rigenerare la società? Certo che sono state illusioni, felici illusioni. Altrimenti sussisterebbe ancora lo schiavismo. Nelle forme comuniste, quelle illusioni sono state delusioni? Assolutamente. Molti di coloro che furono marxisti si illusero che il marxismo, il comunismo, oggi dimenticati, realizzassero le promesse di benessere e libertà per tutti, proclamassero, a loro giudizio soltanto verbalmente, dalla borghesia. Il marxismo si presentò come adempimento concreto (libertà sostanziale e non esclusivamente formale, secondo il giovane Karl Marx) delle mere promesse borghesi. Fu un errore sconvolgente, il comunismo non attuò nessuna delle promesse borghesi, non le rese “prassi”. Quale che sia la influenza sulle promesse non mantenute dalla borghesia, il comunismo non ne ha reso “atto”, realtà, alcuna. Non vi fu il superamento attuativo delle promesse borghesi. Se un giorno qualcuno vaglierà questo punto polare di un grumo storico, che molti furono marxisti per dare attuazione completa ai valori borghesi di giustizia e libertà, ingannandosi di poterlo fare con il marxismo comunista ma ritenendo che i borghesi non avrebbero mai attuato l’universalismo della libertà con la giustizia, costui farà capire alle sue generazioni il travaglio “patetico” e attualissimo di quell’epoca. Ho affrontato la questione nel mio recente libro: Ho vissuto la vita, Ho vissuto la morte (Armando Editore). E ne dirò a giorni in un Convegno a Bari (Casamassima).
Negli anni ai quali mi riferisco la letteratura disputava di classi, di proletariato, di progresso, di comunismo, di sfruttamento, di alienazione, di arte, di integrità umana, di impegno, di bisogni. Ma non si trattava di misurare il progressismo, l’ideologia, ma il grado di temperatura, la profondità cognitiva resa espressione, questo l'ambito comprendente del mio testo a cui sovente mi riferisco, pubblicato su Nuovi Argomenti, rivista diretta da Alberto Moravia: se bastava l’ideologia a rendere arte un'opera o vi era qualcosa di indispensabile dentro l’ideologia, l'espressività. Di persone, di personaggi conosciuti nella mia giovinezza, taluni fugacemente, altri con relazioni di attività e di amicizia, ho dato rappresentazione, anche per consegnare un mondo scomparso, persistente nella cultura e nell’arte. Ma poiché, persone e personaggi, furono uomini e donne, il loro modo di essere come individui conta, al di là dell’opera. Come dimenticare la “figura” di Elsa Morante, per dire? Era un vero personaggio, e un personaggio vero. Piccola, faccia larga, capelli dilaganti, crespi, gonfi ai lati, primitivi, occhi indimenticati, di un azzurro colmo straripante, più dilatava le palpebre più rivelava azzurrità, due laghi che sembravano sul punto di versare il loro colore oltre l’occhio.
Se ne stava accucciata, intanata, direi, in una mansarda a Via del Babuino, quasi a Piazza del Popolo, Roma, prossima all’abitazione di Alberto Moravia, allora in via dell’Oca. Di Moravia la Morante era consorte: sono i primi anni dopo il 1960. Fu appunto Moravia a dirmi di conoscere Elsa, la quale viveva tra cuscini, divani, poltrone e gatti persiani a lei somigliantissimi, scarruffati e dagli occhi fermi e diretti. La Morante era tutta in sé, l’opposto della “mente” moraviana, che connetteva la soggettività dei suoi protagonisti a una realtà sociale condivisa. La Morante scriveva delle sue fantasie familiari o dei suoi intrecci psicologici, in atmosfere inconsuete, tangenziali: si trattasse dei suoi ricordi familiari, in Menzogna e sortilegio, si trattasse di un rapporto padre-figlio ne L’isola di Arturo, come se svolgesse sogni, narrasse di mondi a parte, un bambino sperso nel delirio o nell’incantesimo. Gliene venne grande stima, in specie da coloro che mal sopportavano il realismo, e il neorealismo.
Non era facile dialogare con la Morante, almeno quanto era facile dialogare con Moravia. Era capricciosa nei suoi giudizi, vale a dire non giudicava: rifiutava o prediligeva. Era legatissima a Pier Paolo Pasolini, che le era legatissimo, almeno fino a quando Elsa pubblicò La Storia, esaltava Umberto Saba, e vantava Bernardo Bertolucci, che aveva pubblicato, per Longanesi, un testo di poesie, premiato a Viareggio. A proposito di testi poetici, Moravia mi suggerì di far leggere un mio libro inedito alla Morante, dicendomi che Elsa amava la poesia. Glielo recai, nelle penombre della sua abitazione, mentre un gatto mi ispezionava ed Elsa mi fissava con occhi che parevano quelli del gatto. Intanto avevo consegnato il testo, per l’eventuale pubblicazione, a Giorgio Bassani, direttore editoriale di Feltrinelli. Bassani lo conobbi forse per tramite di Attilio Bertolucci, poeta, padre di Bernardo. Bassani era non alto, ben proporzionato, poco rivestito di capelli, un viso ovale raffinato, occhi tondi azzurri, elegante, con qualche inceppo nel parlare. Attilio Bertolucci sembrava invece un proprietario terriero rustico di tratti, non fosse che guardava con occhi marroni affettuosi e parlava con voce gentile, musicale, come puro Bernardo.
Con Bassani il rapporto fu breve e assurdo, dovuto all’impazienza giovanile, e preso com’ero dalla pubblicazione del mio saggio sulla letteratura italiana per la rivista di Moravia Nuovi Argomenti. Chiamavo Bassani per sapere, dopo appena qualche settimana, quando sarebbe uscito il mio libro di poesie. Bassani mi diceva di pazientare, lo visitai anche nella sua abitazione, finché una sera, quando mi risposero che non stava a Roma, certo di trovarlo negli uffici della Feltrinelli, andai, lo incontrai, gli richiesi il testo. Ho ancora nella vista lo sguardo incredulo e sgomento di Bassani, il quale mi consegnò, balbettando non so che, il testo, che ripresi fuggendo. Incredibilmente, qualche giorno dopo Geno Pampaloni mi scriveva che Mario Luzi e Carlo Betocchi avevano deciso di pubblicarmi nelle edizioni Vallecchi. Anche con la Morante mi comportai impulsivamente. Un pomeriggio, di domenica, credo, le telefonai, chiedendole del mio testo di poesie, me ne parlò con percezione partecipe. Io, però, ora non so comprendere la ragione, volevo il testo indietro, lei voleva farlo leggere a dei critici, io non insisteva, lei insisteva, io insistevo, lei era chiamata dalle amiche, suppongo giocasse a carte, io ero spintonato dalle persone radunatesi intorno, usavo un telefono pubblico. Una comica.
Infine, la sconsolata Elsa mi ridiede il testo. La verità è che un giovane, con l’ansia della pubblicazione, vive una condizione seminferma. Non credo Bernardo Bertolucci passasse simili stati d’animo. Attilio, il padre, poeta noto, implicato nelle case editrici, amico di tutti, diciamo, benestante, gli garantiva una piattaforma, tuttavia Bernardo voleva far da sé, era coccolato da Pasolini e dalla Morante per quel testo di versi al quale ho accennato. Fu Pasolini ad affiancarlo nelle prove di cinema, cinema che diverrà la scelta di Bernardo, com’è risaputo. Bernardo era giovanissimo, mio coetaneo, contralto, manteneva i capelli, vestito a puntino, possedeva una Mercedes che mi pareva un camion tanto era grande, insomma: si faceva avanti. Attilio e Bernardo Bertolucci erano di Parma come lo era Alberto Bevilacqua. Alberto iniziava una accanita produzione letteraria, aveva temperamento focoso, rossiccio di capelli, da giovane, occhi azzurri, corporatura da pugile, un lottatore, le sue vicissitudini familiari, l’appassionato amore per la sua città, la presenza della guerra, tutto ciò che eccede lo coinvolgeva, si che, poesia, narrativa, osa l'estremo, fino al morboso, le manifestazioni di una realtà, se non tragica, drammatica. Fummo proprio amici. Andavo a casa sua, o ci vedevamo nei ristoranti. Al Bolognese. Gli presentai e recensii libri, e Alberto similmente, nessuna condiscendenza, tuttavia. Alberto non era in simpatia, per dire, con Moravia ei suoi amici, Pasolini, Enzo Siciliano, si affermava corrispondentemente. E furono battaglie.
Non vorrei osare un’impressione dolcificata di quell’epoca. Oltre tutto ciò, accadeva, e non sempre ce ne rendevamo conto, un mutamento nel costume italiano e anche nella cultura, nelle ideologie, come si diceva, mutamento che si prolungò. Con Moravia, Pasolini, specialmente, la sessualità e l’omosessualità entravano nella problematica sociale. Cominciò a erodersi il moralismo che vietava di fare delle sessualità un argomento letterario e, socialmente, un’espressione di libertà; con più fatica, ea costo di dolentissime esperienze, anche l’omosessualità attenuò i suoi tratti dannati. Oggi, che viviamo di eredità, solo chi li ha vissuti può rivelare che anni di ostracismo furono quelli verso chi non pretendeva in fondo altro che maggiore libertà. Anche sul terreno ideologico avveniva un sommovimento. Mi approssimo agli anni Settanta, li oltrepasso. Il ’68 ha ceduto al terrorismo, il quale è l’opposto del ’68. Rivoluzione del costume, vitalismo, il ’68; rivolta disperata, omicida il terrorismo, proprio per negare il presunto conformismo del piacere di vivere dei sessantottini e per combattere una sinistra non rivoluzionaria. Quando non c’è rivoluzione c’è il terrorismo o l'integrazione, questo il “ragionamento” dei terroristi. Il Sessantotto proponeva la gioia di vivere, che era la migliore rivoluzione, la più difficile, la meno compresa dai moralisti. Che fare se non è il proletario a succedere alla borghesia? Sparare all’impazzata, per creare “rivoluzione”?
Quante discussioni! Il non dimenticabile Lucio Colletti, tra un passaggio con le mani nei suoi capelli ricciuti come se dovesse premerli per ragionare cominciava a tirarsi fuori dal marxismo, e ne era stato tra i più rinomati studiosi, con Cesare Luporini, Galvano della Volpe, Paolo Rossi. Colletti, prima negò il Marx dialettico, la dialettica, e ne fece uno scienziato, il che mi pareva inconcepibile; poi lo negò totalmente. Ci incontravamo a casa di Lucio. Non è il momento di vagliare se la dialettica andasse respinta e bisognava tornare alla logica aristotelica e al principio d’identità, la questione più appariscente era questa: costituisce il proletariato una classe “successiva” alla borghesia, e con quale “forma” economica? Lucio si tormentava i capelli, e, con la bella voce analitica, negava ormai questa eventualità: il proletariato non era l’erede della borghesia, veniva sconfitto all’interno della borghesia. Non se ne compiaceva. Né voleva una borghesia spadroneggiante. Ma la storia è una miniera, più scavi e le sorprese non finiscono. Quanto spiace che non vi sia l’amico Lucio Colletti per considerare insieme una “variabile” che pochissimi colgono: oggi la crisi della borghesia viene dalla stessa borghesia. Per cui adesso il quesito è: la borghesia sarà capace di succedere a sé stessa?
Ad Elsa Morante tutto questo insieme non interessava, credeva nei ragazzini, che i ragazzini avrebbero salvato il mondo. Poi, nell’estremo della sua opera e della sua vita, scrisse La storia ed ebbe risonanza anche di pubblico. La storia le appariva una successione di orrori. Ed Elsa la fuggiva tra sogni e gatti. Si separò da Moravia, che prese abitazione a Lungotevere delle Vittorie. Invecchiò, la scorgevo a Piazza del Popolo davvero sciamannata. Dopo anni furono edite le missive che l’innamorato Alberto Moravia inviava ad Elsa. Una espressione di Moravia mi sta nella mente. Pressappoco questa: “Se ti vedo sono quasi felice”. Chi sa, è addirittura pensabile che Elsa Morante non concedesse ad Alberto Moravia neanche la “quasi felicità” e Moravia visse quell’amore come un cieco che non tocca la parete. Mentre Elsa Morante forse andava tentoni verso qualche ragazzino. Oltre l’opera, la vita. Ed una persona, quella, quello, oscura ogni gloria o la diamanteggia. Una, uno, vale l’intero universo. È l’amore: rende insostituibile l'individualità. Per un lungo periodo Elsa fu l’individualità essenziale di Moravia, ed Elsa forse, dicevo, eludeva di essere presa Quando Moravia si staccò, fu Elsa a diventa cieca brancolante. Supposizioni. Nel gioco delle parti.
Aggiornato il 27 marzo 2023 alle ore 19:56