In questo periodo di celebrazioni, di ricorrenze, forse la più sicura come qualità elevata, qualità propriamente qualitativa è riferibile a Maria Callas. In Maria Callas la dignità dell’opera lirica, e quindi dell’arte, raggiunse forme espressive compatte nell’aspetto tragico, l’aspetto tragico che rende la sommità nell’arte consistendo nella sommità della condizione umana, tragicissima. I greci, come in tutto il resto, la colsero, e diedero all’umanità la “tragedia”. Epica, elegiaca, lirica possono verticalizzarsi vertiginosamente, ma l’estremo della sommità, il confine delle vicissitudini, le situazioni al di sopra di ogni situazione, l’uomo che affronta la rovina inabissante privo di agganci sta nel tragico, è il tragico. Maria Callas era greca per sua natura non in quanto di genealogia greca, per sua natura, ripeto. Interpretò anche personaggi furbetti, divertiti, beffardi, la Rosina ne Il barbiere di Siviglia, mossette, sorrisetti, ma dopo enunciazioni ben disposte “se mi toccano nel punto debole sarò una vipera”, niente da fare, tragica. Tutto in Maria Callas inclinava alla tragicità: ironica, beffarda dava parte alla tragicità, la sua tragicità non era monocromatica, contiene anche aspetti di una crudeltà, sorridente, scaltra, minacciosa di rovine altrui, di stare attenti, al dunque, che la sua violenza può scaraventarsi. Ragazzo, io, da un compagno di studi ascoltai la Sesta Sinfonia di Ludwig van Beethoven, diretta da Arturo Toscanini, dischi a settantotto giri, l’apertura ariosa, aprica, felice mi annientò, la melodiosa armonia di vari suoni e strumenti confluenti fu una scoperta, ero abituato ai canzonettisti italiani con accompagnamento orchestrale semplificato.
Poi in concerto, a Messina, udii la Prima Sinfonia di Johannes Brahms che mi confuse alquanto. Ed infine, la Norma, in disco, Tullio Serafin la dirige, Maria Callas la incarna. Quando diede voce canto e pervenne a Casta Diva, follia, travolgimento, un altro mondo, l’iperuranio, l’essenza della “voce”, il mondo delle Idee platoniche, le voci umane diventavano copie scopiazzate della voce assoluta. Com’era possibile che da una persona venisse un suono così limpido e pieno, puro, senza scorie, con modulazioni dalla curvatura carezzevole, anche quando si potenziava nessuno sforzo, una prosecuzione celebrativa serenissima, devozionale. Ma era soltanto l’introduzione agli splendori. Il Duetto tra Norma (Callas) e Adalgisa (Ebe Stignani), la densità della voce, la calma solennità della emissione mentre cerca di confortare Adalgisa dolente d’amore, una Adalgisa che regge quasi il confronto vocale con Norma, nobiltà vicendevole che perviene ad una sonorità fraterna del cantare insieme. Adalgisa convinta di avere in Medea, una tutrice delle sue amorose pene e Norma certa di poter confortare la sua sacerdotessa innamorata. Quando, ahimè, la tragedia, l’amore dell’infelice Adalgisa è l’amante della felice, perché ignora, Norma. Allo scoprire l’inganno Norma raduna il popolo, i Druidi, e si trasforma in Maria Callas, tragedia a colpi di accetta. Grida la sua colpa di fronte al popolo ed al padre (Nicola Rossi Lemeni) e travolge l’amante ingannatore Pollione (non rammento il nome del tenore) nella condanna a morte, essendo Norma sacerdotessa volta alla castità. Non esistono equivalenze da nessun’altra edizione ascoltata da me, il Duetto Norma-Adalgisa con la reciproca cantabilità melodiosa, risposta e domanda domande e risposte finché si precisa la rivelazione terrificante che l’amante di Adalgisa è l’amore di Norma, dicevo, Norma chiede a Pollione di rinunciare all’amore per Adalgisa, Polline rifiuta (No, sì vil non sono), Norma accusa Pollione e se stessa di connubio proibito, chiede la morte, insieme sono dannati a morte.
Pollione scopre che donna ha avuto e perduto. Si uniscono nella morte se non ressero uniti nella vita. La Callas non grida, non “urleggia”, non “ululeggia”, anzi, un’ira contenuta, fa percepire l’ira interna appunto in quanto si sforza a contenerla, occorre forza di controllo tale è la rabbia. Bisognerebbe educare la gioventù a queste finezze sussultorie, sono acquisizione di ricchezza umana, così com’è l’implorazione al perdono del padre da parte di Norma, la quale percorre le emozioni sull’arpa e sui timpani, imperiosa, serena affettuose, amante amorevole, cova rancori, ringhiosa, una capacità metamorfosica di attrice cantante, senza svilire in qualsiasi cangiamento. Non dico della Medea (Luigi Cerubini), l’assoluto tenebricoso per una cantante, cupa, gutturale, incavernata, Vibrazioni minacciosissime contenute, al punto della detonazione, tigresche, unghiate. Questa è la stessa Callas che sapeva anche estendere liricheggiando una voce diritta come i raggi del sole o della luna o dei diamanti, la voce ingioiella la parola, la rende nitida, duttile, pieghevole, con una naturalezza di ruscello, di fiume, di mare, di tempesta. Aspra, se necessario, esile, quando occorreva, rauca, a giusto uso, esplodente, così sia, ma con naturalezza, per naturalezza espressione acconcia, secondo l’occorrenza legittimata. La “bella voce” è una tra le voci possibili, ecco la differenza quintessenziale.
Se era idonea una “brutta” voce, raucosa, gutturalesca, perfetto, ma anche dosatura calibrata, come un’aquila che dopo il volo chiude le ali. Ascoltare, in Tosca, come pronuncia “perché me ne remuneri così”, il “così” è da incastonare, chi avendo agito bene non comprende perché è ricambiata male (così) dalla sorte. Vale l’intera opera, la fa comprendere, una donna che cercava soltanto l’amore e riceve dolore e morte.
Non si finirebbe a valutare dettagli. Ezio Pinza nella Messa di Giuseppe Verdi a dire: Requiem aeternam dona eis, Domine,”, Fëdor Ivanovič Šaljapin nella morte di Boris Godunov, nel Requiem tedesco di Brahms, ma dico per dire, sono colibrì musicali, particelle infinitesimali. E la Callas vi mette del suo. Ovviamente, tutto Enrico Caruso. Minimissime citazioni. Quando sentì di morire e forse volle morire, abbandonata, tradita, svilita dal nuovo Pollione. Aristotele Onassis, Maria Callas ad una governante fedele scrisse la lettera tragicissima di una innamorata verso l’uomo che pure l’aveva annientata: confondere, unire le sue ceneri alle ceneri di Lui nel mare greco. E lo chiedeva implorando, quasi che realmente le ceneri unendosi riddassero legame eterno. Ecco: i personaggi che Maria Callas rappresentava non erano i personaggi che rappresentava, non erano Norma, non Medea, non Carmen, non Rosina, non Violetta, erano Maria Callas, interprete di se stessa. È l’arte, esprimendo l’altro l’artista esprime sé. Questo rende cosciente e più sentito il personaggio, continuare ad essere se stessi diventando un altro. Quando ascolto è come se ascoltassi incarnazioni della Callas, il massimo che l’artista può dare essere insieme personaggio e se stesso. Chi sa, qualcuno è consapevole che non dare luogo in ogni ordine di studi all’immissione della filosofia almeno elementare ed all’opera lirica è un taglio mentale! Anni passati, mentre navigavo in Grecia, costeggiando il Monte Athos e poi inoltrandomi udii la musica delle onde e poi una voce estesa come il vento che si aggirava nel mare, mi precipitai al parapetto, avrei avuto la fortuna di Ulisse, udire le Sirene. Straordinario evento. No, assai maggiormente prodigiosissimo accadimento, era Maria Callas. In compagnia di Orfeo. E Onassis? Polvere spenta.
Aggiornato il 28 febbraio 2023 alle ore 16:12