“Sì, ne è valsa la pena”. Simone Casetta non ha dubbi. Il fotografo – nato a Milano – dal 2010 è in viaggio in tutta Italia, per portare avanti un progetto in continuo divenire. Un percorso da Nord a Sud – isole comprese, direbbero quelli bravi – che conta, al momento, 150 scatti che ritraggono i volti dei poeti. L’obiettivo è arrivare a quota 200 (“poi mi pensiono”) e di mantenere in vita quello che è, a tutti gli effetti, un archivio, un contenitore (in tre esemplari) con stampe dove predomina l’antica tecnica del platino palladio. Una tecnica – le foto sono in bianco e nero – che “restituisce una ricchezza tonale straordinaria, con effetto di presenza e di tridimensionalità unici. Siamo davanti a un segno espressivo, che ci fa incontrare una persona”. In fondo, “offriamo un angolo limitato”, un pezzo di estrema intimità” diluita “in poco tempo”.
L’idea del Registro fotografico dei poeti di lingua italiana nasce quasi per caso, o meglio, “in maniera un po’ avventata. Per anni avevo lavorato con Raffaello Baldini. Oltre a registrare le sue poesie, avevo realizzato un suo ritratto e stampato una delle foto al platino palladio. L’allora direttore del settimanale Sette, Pierluigi Vercesi, disse che sarebbe stato bello allestire una mostra. Così ho cominciato”.
L’elenco iniziale vede 150 nominativi che poi, man mano, sono aumentati fino a più di 300. In questo mare magnum – snodato lungo tredici anni – confluiscono promesse, scommesse, consacrati e sperimentatori della poesia italiana. Il cammino va da San Pietro al Natisone, in provincia di Udine, da Antonella Bukovaz fino alle porte di Trapani, in Sicilia, da Nino De Vita. Paesi, paeselli ma anche le grandi città, come Roma e Milano. Per Casetta, alla fine, muoversi non è poi un problema, visto che alle spalle ha reportage in Pakistan e mostre in Francia, Austria, Svizzera. Un cittadino del mondo calato nella realtà dei territori, alla ricerca di versi e storie da racchiudere in un click.
Ma come ci si avvicina a un poeta? “In generale c’è una buona disponibilità – dice – inizialmente, nessuno sapeva di questa cosa”. Ma andando avanti, la voce si è sparsa. E qualcuno, allora, comincia a chiedere chi ci fosse tra i soggetti fotografati, con un tono tra la diffidenza e la competizione. Anche se, sotto sotto, c’è dell’altro: “La poesia è intimità, slancio, passione. Se un lavoro altrui non piace, questi personaggi sono feriti, stanno male veramente. Il mio rapporto con le poesie? Le leggo, ma con parsimonia. È un po’ come un dolce che adoriamo: uno è strepitoso, due sono buoni. Ma tre sono troppi”. Una volta raggiunti i protagonisti di questa storia, spiega Simone Casetta, “non seguo una procedura tipo. I ritratti sono diversi gli uni dagli altri. Per quello che mi riguarda, non mi documento prima”. Insomma, c’è “una tara di indifferenza”. Che però serve per assorbire appieno ciò che ci sarà di lì a poco.
Come detto, le foto sono in bianco e nero. Il motivo? “Non c’è una spiegazione precisa – rivela – diciamo che le ho istintivamente immaginate in bianco e nero. Nelle stampe dirette da negativo, in più, c’è un notevole senso di tridimensionalità e il platino palladio non ha decadenza nel tempo”. L’importante, per citare il grande fotografo ungherese, Robert Capa, è seguire un consiglio, che può diventare un dogma: “Ama chi hai davanti e faglielo capire”. Il resto vien da sé. Come la speranza, che è l’ultima a morire: “Mi piacerebbe trovare una sede istituzionale dove ospitare gli scatti – racconta – dal Museo delle fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo c’è già un’intesa”.
L’idea, per il futuro del Registro fotografico dei poeti di lingua italiana, è quella di istituire borse di studio e bandi per giovani fotografi, mettere a disposizione materiale per lavori di ricerca. E, perché no, avere una base che possa essere implementata da altri, con le immagini di ulteriori poeti. Perché, senza tutti i loro volti, questa raccolta “sarà necessariamente più povera e imperfetta”.
Insomma, ancora è presto per dire basta. Così, nel percorso qualcosa resta. Anzi, più di qualcosa: “Tempo fa fotografai Franco Loi, era anziano. Sulla porta, al momento dei saluti, mi ha trattenuto la mano. E ho sentito del calore. Quando ho girato le spalle, ho provato la stessa sensazione di quando accompagnavo a casa la fidanzatina quindicenne: ero incredulo che una separazione potesse avvenire...”.
Il punto di andata, quindi, è come quello di ritorno. E la conclusione diventa scontata: “Sì, ne è valsa la pena”.
Aggiornato il 02 febbraio 2023 alle ore 10:02