Sta davvero calando il sipario sul “palcoscenico della cultura italiana”? È di questi giorni la notizia della scelta del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano di non rifinanziare la piattaforma ItsArt, con la conseguente messa in liquidazione della società da parte della Cassa depositi e prestiti (Cdp). Voluta fortemente dall’allora ministro Dario Franceschini, ItsArt sarebbe dovuta diventare la “Netflix della cultura italiana”. Nata nel maggio 2021, partecipata al 51 per cento dal braccio imprenditoriale dello Stato, cioè la Cdp, e al 49 per cento da Chili, nel primo anno di attività ha avuto una perdita di 7,5 milioni di euro. Come ha scritto Luciano Capone sul Foglio del 6 gennaio, pur non essendoci dati ufficiali relativi al 2022, si è stimato nel giugno scorso che la spesa media degli utenti registrati (tra i 140 e i 200 mila) è stata tra i 70 e i 95 centesimi all’anno. È evidente allora come, con dei ricavi del genere, la società non potesse andare avanti: non c’era domanda per un servizio di questo tipo.
Già in origine, le perplessità in merito a ItsArt erano numerose: ad esempio, perché non approfittare della presenza di Rai Play? Si sarebbe potuto potenziare l’offerta di quella piattaforma, con documentari, spettacoli teatrali, concerti, tutto quello che poi è finito nel “cartellone” di ItsArt, dal momento che si trattava di contenuti culturali particolarmente adatti al “servizio pubblico” offerto dalla Rai. Ma lo Stato imprenditore culturale ha logiche tutte sue: l’eventuale insuccesso non è in cima ai suoi iniziali pensieri; occorre soprattutto “fare”: tagliare nastri e avviare iniziative. E così, solo due casi tra tanti, abbiamo assistito prima al fallimento di VeryBello! (il portale che doveva “rilanciare l’immagine dell’Italia nel mondo”) e ora a quello di ItsArt.
Il coinvolgimento dello Stato nel settore culturale è già particolarmente ramificato, inoltre – in questi anni – con l’espansione del “digitale” l’offerta è giunta a essere molto varia e abbondante ed è in corso una sempre più accentuata trasformazione delle abitudini di consumo: basti pensare ai recenti dati sulle presenze nei cinema italiani, che nel 2022 sono più che dimezzate rispetto agli anni pre-pandemia. Le persone non hanno iniziato a vedere meno film, probabilmente lo fanno in maniera diversa, oppure preferiscono la qualità di molte serie, utilizzando quel frastagliato settore delle piattaforme di streaming che continua a crescere. Nonostante la chiusura di – il palcoscenico della cultura è quindi ben aperto e non serve alcun intervento dello Stato imprenditore o innovatore che dir si voglia: le monde (culturelle) va de lui même.
(*) Direttore editoriale dell’Istituto Bruno Leoni
Aggiornato il 17 gennaio 2023 alle ore 09:15