“Dieci passi di tango” è un volume appena uscito per le edizioni de “Il Formichiere”. Ne parliamo con l’autore, Alessandro Aronica, economista, ex dirigente della Pubblica amministrazione.
Che libro è? Narrativa, storia, memorialistica? E perché questo titolo?
Direi che per nove decimi è una raccolta di saggi sulla storia del tango e per un decimo è memorialistica visto che il libro si conclude con una nota autobiografica, il capitolo intitolato Cous Cous tango, incentrato sulla storia, la lingua e la cultura musicale della mia famiglia, di coloni italiani in Tunisia e poi di profughi italo-tunisini in Italia. Quanto al titolo, il riferimento è ai piccoli breviari con cui i maestri di danza europei negli anni dieci del Novecento compendiavano il ballo del tango: i passi fondamentali erano quasi sempre dieci. In quei piccoli manuali, a volte di una sola pagina inserita in uno spartito per pianoforte, il tango veniva spiegato e, soprattutto, neutralizzato e normalizzato rispetto alle sue insidie vere o presunte.
Andiamo con ordine: nove saggi di storia? Ma l’argomento è così serio?
I balli sociali sono un argomento serio per storici, sociologi e non solo. Per quanto riguarda il tango, da poco più di un ventennio gli storici di professione hanno cominciato ad occuparsene con metodo scientifico. Non è il mio caso, peraltro. Io non sono uno storico di professione, sono solo un certo tipo di collezionista. Da molti anni cerco di mettere in salvo tutto quanto trovavo sul tango: libri e riviste innanzitutto, e poi spartiti, dischi, fotografie, programmi teatrali. Chiuse nello stesso luogo (il Mate, Museo Aronica del Tango in Europa) tutte queste cose hanno cominciato a fare amicizia tra loro, creando talvolta un filo narrativo plausibile. A un certo punto ho cominciato a pensare che questo filo... insomma che queste storie meritassero di essere raccontate.
Sono storie a cui si può credere o c’è di mezzo la fantasia di chi scrive?
Sono scritte con il rigore di cui ero capace e non c’è nessun volo di fantasia. Semplicemente non muovono da un intento sistematico, non rappresentano una storia strutturata del tango in Europa, ma dei contributi, delle storie che a quella storia maggiore possono essere utili.
Ci faccia qualche esempio di queste storie e dei personaggi del suo libro.
Qualche anno fa mi imbatto in un libro di Arnaldo Fraccaroli, musicofilo, biografo di Puccini, scrittore e giornalista molto prolifico, oggi poco frequentato anche se di recente è stata pubblicata una sua biografia. Fraccaroli dedica un suo libro di viaggi a Buenos Aires e un intero capitolo al tango. È significativo: tra il 1913 e il 1914, gli anni del tango come fenomeno di moda, Fraccaroli aveva scritto, come altri, articoli divertiti e taglienti; circa venti anni dopo vede ballare il tango in un modesto locale di Buenos Aires e l’atteggiamento diventa di rispetto. Mi è sembrato importante raccontarlo e riportare l’attenzione su questi suoi scritti, anche su quelli pieni di ironia pubblicati negli anni dieci sul Corriere della Sera. Un capitolo del libro è dedicato a Guido da Verona, uno scrittore che trovai citato qualche anno fa in un libro di memorie di Enrique Cadicamo, poeta e paroliere di tanghi. Mi metto a scavare. Compro tutto quello che trovo. La produzione degli anni dieci e oltre. E leggo. Ci sono tantissimi riferimenti al tango. All’inizio speravo che potessero contribuire a chiarire come si ballava il tango all’epoca, negli anni dieci, agli albori del suo avvento in Europa, ma da Verona evita volutamente di scrivere in modo troppo tecnico, gli interessa far vedere il tango come attraverso un vetro, sottolinearne il carattere sensuale ed elitario. A dispetto di questo utilizzo, le sue opere sono comunque disseminate di riferimenti da esperto. Per esempio alle orchestre che suonano a Parigi o ai tanghi alla moda. In ogni epoca ci sono dei tanghi di cui sembra che non si possa fare a meno. Da Verona conosceva quelli del suo tempo e li menzionava distrattamente come elementi casuali del suo arredo narrativo.
Il suo è anche un invito implicito a rileggere scrittori come da Verona o Luciano Zuccoli e Carolina Invernizio che cita ampiamente in un altro capitolo, quello sulle origini postribolari del tango?
Il libro non ha nessun intento pedagogico. Da Verona fu scrittore di straordinario, eclettico virtuosismo, ma questo non significa che possa o debba essere apprezzato oggi, e certamente non nella sua interezza. Era anche un bravo ballerino, dandy, generoso e dissipatore: è la sua biografia che meriterebbe maggiore attenzione dal mio punto di vista. Anche sotto il profilo dei complessi rapporti con il potere di un autore che amava prendersi le sue libertà. Alla fine fu “scomunicato” dal fascismo, dopo aver scritto una parodia dei Promessi Sposi di intonazione anticlericale all’indomani del Concordato tra Stato e Chiesa, ma non fu la sola opera scomoda di uno scrittore formalmente allineato. Quanto a Luciano Zuccoli, di lui gli esperti di tango conoscevano e citavano solo una discutibile filastrocca, il mio libro riporta l’attenzione su due racconti di buona efficacia pubblicati sul Corriere della Sera. Infine, rivalutare la Invernizio credo sia impresa inutile quanto proibitiva. Il suo romanzo “La danzatrice di tango” è pur sempre una testimonianza dell’immagine del tango che gli scrittori dell’epoca amavano accreditare, talvolta avendone solo sentito parlare o letto sui giornali.
Ma torniamo al tango. Alla fine è riuscito a capire qualcosa in più su come si ballava agli inizi del Novecento in Europa?
Lungi dall’aver esaurito il tema. Ho voluto ricordare alcune fonti interessanti e collegarle tra loro: gli articoli di Fraccaroli, gli articoli giornalistici e gli album di caricature di un grande disegnatore francese, Georges Goursat, che si firmava con lo pseudonimo di Sem, e i lavori di altri illustratori e artisti dell’epoca, le memorie e i manuali di un maestro di danza come Enrico Pichetti, gli spartiti di cui dicevo dianzi. Per venire alla sua domanda, nessuna novità coreografica poteva essere più importante del fattore “improvvisazione”. La convinzione che mi sono fatto è che l’improvvisazione come la intendiamo noi non appartenne al ballo approdato in Europa negli anni dieci, mentre il tango come fatto collettivo, con i suoi riti quasi religiosi e la sua natura aperta e interclassista fece forse la sua prima comparsa. Disporre di filmati d’epoca consentirà di capire di più, ma non sarà decisivo. L’elemento dell’improvvisazione è difficile da filmare o fotografare: è come scattare la foto di un’anima o di un’intenzione.
Scusi, ma come la “intendiamo noi” l’improvvisazione?
La mia generazione, quella che ha incontrato il tango quanto è tornato in Europa, a partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento, ne ha fatto un formidabile strumento di comunicazione, un gioco emozionante, nulla a che vedere con la parodia dell’erotismo o del corteggiamento, piuttosto un’autentica ricerca dell’intesa e di armonia tra due persone che rimangono in una situazione di perfetta alterità, non sono una squadra, non recitano un copione prestabilito. Agli inizi del Novecento i maestri di danza europei erano soprattutto vestali di buone maniere e conformismo. Confezionarono una versione del tango in perfetta continuità con le danze del passato, ridussero le novità a qualche elemento coreografico. L’improvvisazione vera e propria non la vollero e non la seppero coltivare. Un vero e proprio depistaggio rispetto al cuore di quella novità che doveva fiorire negli anni quaranta e cinquanta in Argentina.
In questo depistaggio la Chiesa cattolica ebbe un ruolo importante?
Si. Ma non facile da inquadrare. Quella della Chiesa fu una censura tutta politica e assai poco tecnica, a differenza di quanto era avvenuto in passato: non se ne occuparono i dottori della Chiesa ma le più alte gerarchie. La Chiesa fu condizionata dai giudizi espressi dagli ambienti conservatori, spaventati dal carattere aperto di questo ballo e dalla sua origine “barbara”. Si mosse in seconda battuta, volle rivendicare il primato della sua censura rispetto a quella degli ambienti laici che, in realtà, c’era già stata: erano gli anni della separazione tra Stato e Chiesa in Francia e in Italia il concordato era ancora lontano. Con la censura cattolica i maestri di danza entrarono in relazione dialettica, poiché come tutte le censure assumeva in fondo un connotato pubblicitario. Decisero quindi di sfruttare le voci sul carattere peccaminoso della nuova danza e al contempo ne promossero una versione ufficiale, consacrata in un certo numero di passi e di figure controllabili nella loro moralità.
La posizione della Chiesa è mai cambiata?
Oggi la censura del tango in sé e per sé è da ritenersi superata nei fatti. Ma non c’è mai stata una revisione esplicita di quelle posizioni. A mio avviso la Chiesa avrebbe quantomeno dovuto ammettere la superiorità morale del tango rispetto al valzer, il primo è un ballo che richiede controllo e piena consapevolezza, il secondo rimane il trionfo dell’abbandono. Ma pensi che pasticcio se oggi Papa Bergoglio, oltre a esprimersi apertamente in vantaggio del tango, criticasse il valzer, che si presume di origine tedesca! Scherzo, naturalmente.
Ha parlato prima di tanghi alla moda. Lei dedica un intero capitolo, l’ultimo, alla Cumparsita, evidentemente un tango che non passa mai di moda visto che chiude le serate nelle milongas.
La Cumparsita è come un inno al rovescio, chiude anziché aprire le manifestazioni. Come molti inni nazionali non è, né sotto il profilo poetico né sotto il profilo musicale, quanto di meglio una cultura abbia potuto esprimere. Non direi poi che oggi sia fra i tanghi di moda. Ne parlo nel libro per una ragione speciale che è legata a Tito Schipa, grandissimo tenore italiano e appassionato di tango che cantò negli anni Trenta una particolare versione della Cumparsita, quella con il testo scritto dallo stesso autore della musica, Gerardo Matos Rodriguez, non quella resa famosa in tutto il mondo da Carlos Gardel (che appoggiò un testo diverso su un’aria in contrappunto e non sulla melodia principale). Nel libro spiego perché la versione con le parole di Matos Rodriguez, a dispetto della bravura di Schipa, non sia la più bella.
Cita molti personaggi a proposito del loro rapporto con il tango ma parla anche di protagonisti del mondo del tango?
Parlo, per esempio, di Paquita Bernardo (bandoneonista morta giovanissima) e Carlos Gardel, per introdurre un discorso sulla lingua in cui venivano scritti i tanghi, il lunfardo. Parlo di Eduardo Bianco e Bachicha Deambroggio e dei tanti musicisti che passarono per le loro orchestre. Il figlio di Bachicha, Tito, suonò alla Coupole di Parigi sino ai primi anni Ottanta, arrivando quasi a cucire il lento tramonto del primo avvento del tango con la nuova alba, che fu lo spettacolo messo in scena al Teatro du Chatelet nel 1983, a seguito del quale la storia del tango ballato in Europa e nel mondo ha avuto un nuovo inizio.
Pensa che il ciclo avviato allora durerà ancora a lungo?
Non so, bisogna considerare molte variabili. Il tango vive nella relazione con le società che incontra. Il successo del tango ballato a partire dagli anni Ottanta del Novecento non andrebbe assolutizzato e riguarda pur sempre una élite, un club, ma, a mio avviso, ha delle ragioni profonde, per cui ce ne siamo appropriati come giocoso e coinvolgente strumento di comunicazione e confronto tra i sessi. Queste ragioni non mi paiono prossime ad estinguersi.
Aggiornato il 12 gennaio 2023 alle ore 14:06