Joseph Ratzinger è stato recentemente definito da Massimo Cacciari, in un’intervista a l’Avvenire del 6 gennaio 2023, “un intellettuale europeo al mille per cento”. Secondo Cacciari, Ratzinger considera “legittimo e giusto il legame che si opera fin dai primi secoli del cristianesimo tra la filosofia greca e il Vangelo. È un legame che non si sovrappone al Vangelo ma che in qualche modo nasce dal Vangelo stesso, che si impone a partire da quel messaggio. Questo è il discorso intorno a cui dibatte la teologia e dell’Otto e Novecento a partire dall’idealismo tedesco, cioè tutta quella tradizione a cui Ratzinger appartiene anima e corpo”. Cacciari sostiene dunque che per Ratzinger “è proprio della fede rapportarsi con il Logos, immanente all’atto di fede e che deve tendere alla verità esattamente come l’atto di fede”.
Se per Ratzinger è essenziale per la fede rapportarsi al Logos, non è meno essenziale per il Logos, per la Ragione, rapportarsi alla fede. Nella famosa conferenza tenuta a Ratisbona il 12 settembre 2006, Papa Benedetto XVI sostenne che una ragione sorda al divino “è incapace di inserirsi nel dialogo delle culture”. Il saper ascoltare “le grandi esperienze e convinzioni delle tradizioni religiose dell’umanità, specialmente quella della fede cristiana, costituisce una fonte di conoscenza”, mentre il rifiutare pregiudizialmente di farlo implicherebbe una riduzione inaccettabile della nostra stessa capacità ascoltare, rispondere e ragionare. Concetti simili saranno poi ripresi nell’enciclica Spe Salvi, nella quale il Papa da poco scomparso ribadì la limitatezza della sola ragione senza fede e una ferma condanna dell’illuminismo: “la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione”.
Il rapporto tra ragione e fede è, com’è noto, oggetto delle riflessioni e discussioni tra teologi di varie religioni e filosofi di varie correnti da circa due millenni e le declinazioni di tale discussione sono ancora oggi varie e numerose. In Italia, all’inizio degli anni Trenta, questo tema del rapporto tra Ragione e fede costituì anche il titolo di un saggio, in origine destinato a servire da introduzione a Gesù Cristo e il cristianesimo, di Piero Martinetti, ovvero dell’unico filosofo accademico che si rifiutò, proprio in quegli anni, di giurare fedeltà al fascismo. In merito a questo tema il pensiero di Martinetti è per alcuni aspetti in sintonia con quello del futuro Papa: come Benedetto XVI Martinetti è infatti convinto che i termini “ragione” e “fede” non indichino dimensioni contraddittorie e incompatibili, ma che costituiscano due momenti diversi della stessa esigenza umana di avere un rapporto con il tutto, con la natura e le sue leggi così come con il senso della presenza dell’uomo nel mondo.
Secondo il filosofo piemontese “la fede è introdotta sempre dalla ragione, giustificata da un antecedente atto della ragione”. Se vuole giustificarsi, “presuppone sempre un previo giudizio, sia pur rapido quanto si vuole, della ragione”. Chi tende a fondarla su elementi irrazionali, o incomprensibili, come i miracoli, in realtà tende a viverla come una forma di superstizione: ogni religione infatti “ha i suoi miracoli ai quali presta la fede più ferma e considera i miracoli altri come ‘contraffazioni’: ma uno spirito non prevenuto non può non riconoscere che tutti hanno in fondo lo stesso valore e ci pongono dinanzi agli stessi problemi”. Del resto, già Pietro Pomponazzi osservava “che le false reliquie hanno le stesse virtù curative delle reliquie genuine: ciò che guarisce è la fede, non le reliquie”.
Martinetti ricorda a questo proposito che nemmeno “l’apologetica protestante non ha mai dato un’eccessiva importanza al miracolo”, riconoscendo altresì nel rapporto tra l’uomo e il tutto i motivi profondi di una disposizione d’animo religiosa. Come sostiene George Tyrrel – un teologo irlandese attivo nei primi anni del Novecento nonché esponente del pensiero modernista, dal quale Martinetti fu influenzato anche per la sua amicizia con Ernesto Buonaiuti – “la religione è determinata dalla profonda esigenza dell’essere nostro, che è un essere parziale e perciò imperfetto, a riunirsi col Tutto: il Tutto, lo Spirito, vive in noi e ci muove verso un fine o un bene universale che è solo per la coscienza del Tutto Questa esigenza, che ci spinge a realizzare in noi la vita del Tutto al di là di ogni fine puramente immanente, dà origine alla morale e in grado più alto alla religione”.
La creazione di simboli religiosi è secondo Tyrrel, “opera geniale di coscienze spiritualmente privilegiate”, ma in questo caso i simboli fanno riferimento a una realtà di tipo diverso rispetto alle proposizioni significanti che usiamo quando siamo impegnati in un’attività conoscitiva: nel caso delle religioni “essi hanno valore soltanto come segni d’una realtà inesprimibile e se contengono in sé una verità, questa è di natura diversa dalla verità scientifica. Senza dubbio essi implicano in sé anche concetti e categorie: ma questi servono solo all’espressione e rivelazione del simbolo e non hanno valore proprio”.
Nella sfera religiosa, ma ancor prima in quella morale, si usano i simboli in modo molto diverso da come li usa la ragione discorsiva, il Logos della filosofia greca classica. Nell’intuizione morale e religiosa la conoscenza supera formalmente l’esperienza e trasfigura lo stesso mondo concettuale dedito a spiegarla. Nella legge morale lo spirito può rivelarsi a se stesso perché l’oggetto del comprendere è il rapporto che ognuno ha con se stesso, con la propria libertà e con il proprio destino.
Per Martinetti “la legge morale è il grado di questa rivelazione dello spirito a se stesso, che ha principio come rivelazione dell’uomo all’uomo nella vita morale”. Tuttavia già l’intuizione morale ha in sé un carattere religioso, così come la rappresentazione dell’anima ha in sé qualche cosa di numinoso, per cui diventa molto difficile stabilire, al contrario di quanto riteneva Søren Kierkegaard, una linea di confine chiara tra la dimensione morale e quella religiosa.
“Chi può dire – si chiede Martinetti – dove finisce l’elemento morale e comincia l’elemento religioso in quel senso di comunione con i morti che è stato senza dubbio una delle fonti precipue della vita religiosa; e che ha dato origine a quel culto dei mani familiari?”. Il culto di questa sorte di “mediatori”, come ebbe a definirli Alfred Firmin Loisy, un altro dei fondatori del modernismo teologico, testimonia della correlazione essenziale che sussiste tra la morale e la fede. L’intuizione religiosa non è infatti, anche secondo Martinetti, “che un grado più elevato dell’intuizione morale e sorge dal contatto diretto della nostra vita con la vita universale. Essa è il vero a priori religioso, che non è un a priori irrazionale (quale contradictio in adiecto!): perché quest’unità, in cui presentiamo l’eterno, è quell’apriori stesso che ordina ed unifica razionalmente il mondo dell’esperienza. Noi abbiamo quindi un unico processo della conoscenza; che comincia con l’esperienza, si continua con il sapere concettuale e culmina nelle intuizioni spirituali della moralità e della religione”.
Sebbene le credenze religiose e le convinzioni morali siano in genere ritenute forme imperfette e secondarie del sapere, Martinetti invita a non dimenticare che “per Kant la coscienza della legge morale è, si può dire, l’unico vero sapere che noi possediamo”. Il carattere soggettivo che è in un certo senso implicito in ogni concezione morale o religiosa non rende infatti meno stabile e determinato il sentimento che le caratterizza e le ragioni che le ispirano. In questo senso, l’avere una fede non contrasta affatto necessariamente con la nostra razionalità, ma tende anzi a completare la sua ricerca e la filosofia costituisce, in questo senso, il mediatore razionale che è funzionale al conseguimento coordinato delle loro rispettive istanze
“I grandi sistemi del conoscere razionale – spiega Martinetti – in quanto esplicano la loro più alta funzione, che è quella di dirigere e di elevare la vita, rivestono necessariamente la forma della fede. “Fede” in questo senso sono perciò non solo le singole credenze morali e religiose (la fede nella libertà, nell’immortalità) e le dottrine religiose in genere, ma anche i sistemi filosofici. Anch’essi infatti partecipano di quel carattere di subiettività che è proprio di tutte le grandi costruzioni unitarie dello spirito, le quali sono sempre sotto questo rispetto ‘credenze’. Il sapere in senso stretto non è possibile che nelle concatenazioni e sistemazioni parziali ed anche qui è possibile solo perché chi ha cieca fiducia ignora quante premesse d’ordine generale esso presupponga”.
La fede diventa invece irrazionale “quando il criterio, secondo il quale si costituisce, è derivato da un’autorità esteriore, che è implicitamente accolta come imperativa per il giudizio individuale. Evidentemente questa forma autoritaria rappresenta una forma di protezione per la fede ed ha la sua sfera normale di svolgimento ed in un certo senso anche di legittimazione nelle forme iniziali della vita religiosa, quando questa è imitazione sociale, adesione passiva ad una tradizione”.
Tutta la questione del rapporto tra ragione e fede potrebbe essere infine ricondotta, a titolo esemplificativo, a due costituenti essenzialmente complementari della spiritualità induista. “Secondo l’antica filosofia indiana – scrive ancora Martinetti – la conoscenza dell’essere assoluto risulta dalla compenetrazione di due fattori: della conoscenza del Brahman, dell’energia spirituale diffusa nel mondo, e della conoscenza dell’Atman, dell’unità che vive nell’intimo dell’essere nostro. Così la conoscenza esteriore riceve un senso dalla conoscenza del nostro essere intimo e profondo; ma questa a sua volta ha bisogno, per elevarsi e progredire, di stendere il suo sguardo sull’infinito vivente che la circonda. L’una e l’altra attività è conoscere ed è ragione”.
Un rapporto simile è appunto quello che sussiste tra ragione e fede: si completano e si integrano a vicenda, e non sono affatto incompatibili, muovendo anche la fede dalla stessa esigenza di riuscire a fornire un senso complessivo al tutto attraverso spiegazioni razionalmente coerenti, pur partendo spesso da premesse indimostrabili. A differenza della scienza, non procede dall’analisi di problemi specifici per arrivare, semmai solo in un secondo momento, a produrre una visione sintetica del tutto; ma antepone l’esigenza di un senso sintetico e perspicuo a tutta la ricerca, così da regolarne l’incedere come una sorta di causa finale.
Nell’allocuzione che Ratzinger avrebbe dovuto tenere il 17 gennaio 2008 all’Università La Sapienza di Roma – e che poi non tenne in virtù dell’iniziativa di chi si arrogò il diritto di non concedere la parola a un Papa che conversava da una vita, nel rispetto delle posizioni di tutti, con accademici e filosofi di ogni sorta, anche atei e materialisti – ribadì la sua posizione riguardo ai rapporti tra scienza, ragione e fede. In un passo del discorso, citando Sant’Agostino, sostenne addirittura che la semplice conoscenza, svincolata da qualsiasi implicazione spirituale, renderebbe tristi, perché “l’uomo vuole conoscere – vuole verità. Verità è innanzitutto una cosa del vedere, del comprendere, della theoría, come la chiama la tradizione greca. Ma la verità non è mai soltanto teorica. Agostino, nel porre una correlazione tra le Beatitudini del Discorso della Montagna e i doni dello Spirito menzionati in Isaia 11, ha affermato una reciprocità tra “scientia” e “tristitia”: il semplice sapere, dice, rende tristi. E di fatto – chi vede e apprende soltanto tutto ciò che avviene nel mondo, finisce per diventare triste. Ma verità significa di più che sapere: la conoscenza della verità ha come scopo la conoscenza del bene. Questo è anche il senso dell’interrogarsi socratico: Qual è quel bene che ci rende veri? La verità ci rende buoni, e la bontà è vera: è questo l’ottimismo che vive nella fede cristiana, perché ad essa è stata concessa la visione del Logos, della Ragione creatrice che, nell’incarnazione di Dio, si è rivelata insieme come il Bene, come la Bontà stessa”.
In un altro passaggio, Ratzinger sottolineò anche la necessità che la ragione sia sottomessa alla fede, ma nel senso particolare di fede cristiana: se infatti la ragione, nella sua presunta purezza, “diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma”.
Il tipo di tensione spirituale che la fede cristiana testimonia verso il tutto e l’assoluto non solo non deprime, secondo Ratzinger così come secondo Martinetti, la razionalità umana e le sue innumerevoli imprese conoscitive, ma tende invece a correlarle in un unico disegno organico. In ogni caso, in linea più generale, senza il riferimento a qualche fede di tipo religioso – non solo, certo, a quella cristiana, ma anche ad essa – le attività conoscitive e speculative tendono a produrre, per usare due espressioni escogitate con lungimiranza da Max Weber, tanti “specialisti senza spirito” o “edonisti senza cuore”. Il nostro desiderio di sapere finisce cioè con lo scomporsi in conoscenze settoriali e disorganiche, incapaci di suscitare forse l’effetto più importante della stessa conoscenza: quello di trasformare chi conosce e il suo rapporto col mondo, di saldare il Brahman e l’Atman in unico senso complessivo e armonico, di coordinare il sapere con la capacità di vivere in modo non contraddittorio la propria esistenza finita nel mondo. Solo in questo modo la propria esperienza vitale può assumere un significato non indifferente a quello che il mondo viene ad assumere alla luce delle nostre teorie conoscitive.
Non necessariamente quest’esigenza d’individuare un senso organico si realizza mediante la fede in delle religioni storiche, ma queste si avvalgono comunque di forme non prive di un’architettura razionale, evocatrici d’una profonda esigenza di razionalità. Per questo non dovrebbero essere ritenute incompatibili con altre attività e dimensioni della ragione: viceversa, esse intrattengono con queste da molti secoli un assiduo confronto, un dialogo fecondo per tutti i partecipanti e sotto diversi profili, come le storie intrecciate della filosofia, della religione e della scienza, così come anche della musica e dell’arte, attestano ampiamente.
Ragione e fede di Piero Martinetti, a cura di Luca Natali, Brescia, 2016, Morcelliana editore
Aggiornato il 11 gennaio 2023 alle ore 11:29