L’aristocrazia dello spirito di Antonio Saccà

Molti libri, saggi, ma anche teatro e cinema, hanno affrontato il tema della Morte, della capacità di ripercorrere in pochi istanti tutti gli anni della nostra vita. Nel corso della storia umana, numerosi scrittori e filosofi hanno affrontato in svariati modi questa situazione personale. Tra saggi, romanzi e novelle, ma anche pittura, scultura e cinematografia, coloro che si sono cimentati nella impresa di “fotografare” la propria vita attraverso la “parola” e l’immagine” sono stati innumerevoli. Questa forma di prosa è chiamata Zibaldone, dalla omonima opera di Giacomo Leopardi. Temi fondamentali dello Zibaldone sono la questione del rapporto tra uomo e natura, la riflessione sul piacere, la teoria della poesia. Antonio Saccà, dopo aver affrontato per due volte il Covid, si è posto di fronte alla sua vita. Una vita piena di sapere, ma anche di irruenta incoscienza nell’affrontare il mistero della socialità umana.

“Ecco, narro i fenomeni che ho vissuto, che ho percepito, e, ora, traversano questo libro, il passato del mio presente, i lembi dei ricordi a cui mi avvinco perché il Nulla non divori tutto. Idee, ideologie, persone, umanità, la mia giovinezza sparita”. Con questa frase l’autore chiude la prima parte dell’opera. Una prima parte che potremmo definire una vera antologia della letteratura, ma specialmente, della cultura “italiana”. Poeti, saggisti, romanzieri, pittori, sembra di assistere a quegli incontri presso il Caffè “Greco” di Via Condotti a Roma, oppure le “Giubbe Rosse” a Firenze, o in Galleria a Milano e Napoli.

Saccà ripercorre questa parte della sua vita, fluendo come un fiume impetuoso tra le rive della contestazione sessantottina. Ogni tanto un gorgo lo avviluppa e lo ferma nell’incontro con un personaggio, di cui descrive non soltanto l’opera, ma il peso che questa “opera” ha nella società che si sta trasformando. Note, pensieri, poesie (non soltanto dell’autore). Questo fiume di vita, ad un certo punto, trova due barriere: il Covid, non una ma due volte. Ed ecco la trasformazione. Saccà si scopre “umano”, mette in discussione parti della sua vita, ma anche parti della società moderna, nella quale, partito con idee nettamente rivoluzionarie e radicali, si trova a contestarne la struttura da una visuale uguale ma contraria.

Spaziando dall’economia al sociale, dalla politica alla finanza, ribalta in chiave attuale i dogmi del marxismo, approdando a quel liberalismo (non liberismo) di stampo sociale, nel quale vede l’unica via d’uscita per il recupero dell’uomo, come cittadino ma specialmente come “operaio”, cioè costruttore di quell’opera chiamata Vita. L’incontro-scontro con la malattia apre a Saccà orizzonti fino a quel momento mai scorti. La fragilità umana, dapprima gestita in forma intellettuale attraverso le sue opere “ante-Covid”, ora assume una forma precisa perché sono il corpo e la mente dell’autore a essere colpite.

La mente spazia in una galassia di pensieri negativi che come buchi neri inghiottono l’intelletto, mentre sprazzi di ricordi e fatti attraversano, come comete fiammeggianti, un cervello e un animo scossi dalla paura inconsciamente umana della morte. Quella morte, o meglio, la paura di morire, è la chiave che permetterà a Saccà di ritrovare l’alveo naturale della sua vita, portandolo a scorrere nuovamente verso l’infinito oceano dell’immortalità. Riflessioni e poesie, vibranti di una nuova linfa, nascono da questa voglia di Vita che soltanto l’eterna partita a scacchi con la Morte permette di gustare in pieno. L’autore conclude questo viaggio invocando l’emergere di una “aristocrazia dello spirito”, qualunque sia la “classe sociale” genitrice, in grado di “mettere in salvo” la “civiltà”. Civiltà senza confini geografici o politici o economici.

Soltanto una “civiltà” che faccia rima con “umanità”.

Ho vissuto la Vita. Ho vissuto la Morte di Antonio Saccà, Armando Editore, 2022, 440 pagine, 19 euro

Aggiornato il 23 dicembre 2022 alle ore 09:32