Giù le mani da Piero della Francesca

Si dice che a Natale si sia tutti più buoni. Non io e anche se una ragione del tutto privata e personale per esserlo l’avrei, non sarò ugualmente buono nei riguardi di chi – incomprensibilmente – invece di salvaguardare un’opera d’arte d’inestimabile valore non soltanto economico, l’ha deteriorata. Il riferimento esplicito è all’avvenuta esposizione dopo il recente restauro, della Natività di Piero della Francesca, un olio su tavola del tardo XV secolo, custodito alla National Gallery di Londra. In Italia abbiamo i migliori restauratori dell’Orbe, e questo è un fatto fuori discussione. Il dipinto di Piero, dalle evidenti influenze fiamminghe, appartiene da oltre un secolo alla collezione britannica, altro fatto fuori discussione. Allora perché non affidare il prestigioso e “periglioso” incarico del restauro alle eccellenze italiche nel campo? Si aggiunga che il direttore della National Gallery è di origini italiane.

Il risultato è evidente, balza agli occhi di chiunque, anche del più inesperto osservatore. Non è infatti necessario essere “addetti ai lavori” per guardare attoniti gli interventi di “restauro” che hanno rifatto i volti a due personaggi della natività, trasformandoli in grottesche maschere di terracotta che nulla hanno a che vedere con il pallido, etereo incarnato tipico delle creature del pittore rinascimentale, fulgido maestro per tutta l’arte simbolica del proprio tempo. Ora i due pastori che stanno dietro la Vergine Maria con il Bambino, hanno lo sguardo vitreo e stolido di chi guarda l’osservatore e non il miracolo della nascita del Salvatore. Sono diventati due estranei, non stupiti né meravigliati, ma ottusi, come fossero capitati lì per caso, in quella colorazione rossastra dei loro volti, piatti e privi di volumi e di lievi ombre.

L’intervento di restauro sarà anche stato eseguito con grande perizia e competenza, ma è del tutto privo della sensibilità e della capacità di coloro che l’hanno fatto, di entrare nell’anima, nella dolce e austera sensibilità del pittore e matematico di Borgo Sansepolcro. Insomma, ciò che abbiamo davanti è un lavoro tecnico ma privo di “anima”. La distanza tra i volti degli angeli suonatori di liuti che cantano la Gloria del Signore e quelli dei pastori evidenzia l’immenso distacco tra ciò che è e ciò che avrebbe dovuto essere. Di là da qualsiasi polemica di “campanile”, e sullo sfondo a destra, nel paesaggio urbano del dipinto, ne svetta uno “anacronistico” che ovviamente tale non è se non per chi non conosce l’iconografia e il simbolo dell’arte tardo medievale – come la gazza che sta sul tetto della capanna – non ci resta ancora una volta che chiederci se siano sempre necessari certi interventi di “restauro” volti a salvare le opere d’arte che il tempo ha inesorabilmente deteriorato o che, forse – come potrebbe essere anche in questo caso – lo stesso artista ha deciso di lasciare così, rarefatte, quasi incompiute.

Infine, per gli amanti dei “codici occulti”, e il Cielo solo sa quanta sapiente messaggio esista in ogni dipinto di Piero, è stata fatta dallo studioso Paolo Tofanelli, un’ipotesi che nel disegno del tetto della stalla si celi uno spartito musicale certamente degno di fare da “colonna sonora” alla nascita di un Dio. Ad ogni modo, questo Natale non sarà il Natale dipinto dal toscano Piero della Francesca, nella sua alta e raffinata ricerca di comprendere il mistero eterno di un Dio che ha voluto accettare la carne umana, per un insondabile moto d’amore divenuto bambino, con gli animali simbolici nella stalla e con un Giuseppe dall’azzurro copricapo che guarda altrove, verso il raglio dell’asino che per questa volta, e soltanto per questa, ascende al cielo mentre le potenze angeliche, divenute simili all’uomo e senz’ali, suonano in un concerto perfetto del quale, soltanto la Vergine Maria, è sublime direttore con buona pace di qualsiasi restauro, che almeno ci ha lasciato intatto il sogno di quella musica divina.

Aggiornato il 20 dicembre 2022 alle ore 12:34