Nagasaki e Sumatra: storie per l’Italia del 25 settembre

La Storia è maestra di vita, dicevano i sapienti dell’antica Roma. Oggi – di fatto – la Storia è stata abolita dalla didattica scolastica per la quale il segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, vorrebbe un obbligo a partire dai tre anni di età. Un obbligo illiberale, degno dell’antica Sparta come del nazi-comunismo novecentesco, che sottrae i figli alle famiglie che vorrebbero educarli personalmente e responsabilmente, invece di affidarli allo Stato. Questo per ricordare che in Italia stiamo rischiando di impoverirci seriamente, come non avvenne nemmeno alla fine della Seconda guerra mondiale. A Milano, come a Napoli o Palermo, il cibo non fu un problema tragico come nel Regno Unito che – nonostante la vittoria siglata nel 1945 – continuò a razionare il cibo fino al 1954: il pane fu dosato fino al 1948, nonostante la riapertura dei commerci e il grano importato da Usa e Canada. Nel 1949 persino lo zucchero era ancora razionato.

Nell’Asia del sud-est fino ai primi anni ’60 la situazione economica era disastrosa, dove oggi le “Tigri asiatiche” fanno paura e divorano i posti di lavoro che non siamo più in grado di creare, a causa dell’invecchiamento della popolazione, della burocrazia e delle tasse ipertrofiche. In Cina il “grande balzo in avanti” imposto dalla dittatura maoista fu il maggior massacro della Storia. Si parla di almeno 30 milioni di vittime e di famiglie che si scambiavano i figli piccoli per poterli mangiare senza troppe remore. Lo storico olandese Frank Dikötter in “Mao’s Great Famine” attribuisce a Mao Zedong (che dormiva con un esercito di concubine, come neanche un sultano ottomano) la morte di 45 milioni di persone. Yang Jisheng pubblicò a Hong Kong nel 2008Tombstone. The Great Chinese Famine 1958-1962”, che fu vietato nel resto della Cina: “… Cento milioni di contadini furono obbligati a dedicarsi alla costruzione e all’alimentazione delle fornaci per la produzione di ferro e acciaio, trascurando il lavoro dei campi. Le piante vennero coltivate così densamente da soffocarsi l’una con l’altra e i semi interrati all’assurda profondità di due metri; i villaggi furono abbattuti per fare posto a immense porcilaie che non entrarono nemmeno in funzione. In mancanza di personale specializzato dalle fornaci usciva materiale inutilizzabile”. Le dittature divorano anime e corpi.

Nagasaki, estate 1958

Un amico, Giorgio B., che ha qualche anno più di me, si recò a Nagasaki la prima volta nel 1958. Aveva 17 anni e si era imbarcato su una petroliera statunitense che faceva rotta dal Golfo Persico – attraverso i porti giapponesi – fino alla California del Nord. Allora si poteva andare per gli oceani anche a 17 anni: si imparavano più cose e si poteva comunque diventare ricco, come chi aveva studiato giurisprudenza o economia, se si avevano buone attitudini. Giorgio B. mi ha raccontato molto sulla miseria allora diffusa a Nagasaki (e anche a Ginza, oggi il quartiere principale di Tokyo, che allora invece era una baraccopoli). A Nagasaki poco oltre la zona off limits dov’era esplosa la bomba iniziava una lunga fila di baracche di lamiera e legno, abitate da chi era rimasto senza casa. Più lontano si estendeva la città rimasta in piedi, con case comunque non più alte di tre piani. Sulla collina c’era qualche ristorante, viceversa si mangiava su due panche di legno vicine ai carretti dove si cucinava.

Nelle strade molte persone si aggiravano con un canestro vuoto rovesciato sul capo. Erano stati sfigurati dalla bomba nucleare e, per nascondere i loro volti, non avevano altro modo che girare con quei canestri sulla testa, come dei lebbrosi. Le donne erano condannate a lavori massacranti e pagati pochissimo. I casini, dove prima c’era una fiorente prostituzione, erano stati chiusi praticamente nelle stesse settimane in cui erano stati vietati anche in Italia. Così, un’intera popolazione di prostitute viveva in strada. Una notte con una donna costava poco più di un biglietto del cinema in Italia. Per spostarsi si usava un taxi. Averlo a disposizione per quasi tutto un giorno costava l’equivalente di 100 lire in Italia. Siccome nessuno parlava inglese, gli stranieri non avevano altro modo di comunicare al tassista l’indirizzo dove andare (una pensione, un ristorante) se non dandogli una scatola di fiammiferi su cui ogni locale faceva scrivere nome e indirizzo. Farsi capire era praticamente impossibile. Altri marinai genovesi in quegli anni avevano invano chiesto a degli abitanti dove potevano trovare del pane. Dicevano “bread”, e non serviva a niente. Poi dissero in genovese “ancoeu mangiemu senza pan” (“oggi mangeremo senza pane”) e allora i locali finalmente capirono. “Pan”, infatti, in giapponese significa “pane” esattamente come a Genova.

Sumatra nel 1960

Nel 1960 Giorgio B. navigava sulla Explorer, una superpetroliera a turbina della Texaco, molto veloce, che faceva la spola tra il Golfo Persico e la California. Una volta però caricarono petrolio lungo lo stretto di Malacca, vicino all’attuale città di Dumai. Gettarono l’ancora vicino a un villaggio poverissimo, posto a un centinaio di chilometri da Dumai. Sui muri era scritta quasi ovunque la parola “Merdeka”. All’equipaggio, che era composto in buona parte da genovesi e altri italiani, quel nome sembrava iconico, tant’era misera la gente che abitava nel villaggio. Scoprirono solo dopo anni che “Merdeka” significa Libertà. Allora era una parola molto usata, perché nel 1957 la Federazione malese aveva proclamato l’indipendenza dall’Olanda. Nel 2021 è stata ultimata la Merdeka Tower, alta 678 metri, che è il secondo edificio più alto al mondo.

Si trovarono di fronte a una situazione pazzesca. Le trivelle della Texaco si trovavano lungo un fiume che era navigabile solo da due navi cisterna, lunghe 70 metri, che risalivano il fiume per andare a caricare il petrolio e poi lo scaricavano nella petroliera alla fonda in mare. Appartenevano a una compagnia genovese, una delle due navi si chiamava Appia. Gli equipaggi erano composti da marinai liguri che da mesi non vedevano uno stipendio e non avevano notizie dall’Italia. Immaginavano che la loro compagnia fosse fallita. I loro abiti ormai erano stracci ed erano ridotti alla fame. I marinai della Explorer su cui era imbarcato Giorgio B. erano anche loro liguri: promisero che si sarebbero occupati di quegli uomini abbandonati al ritorno a Genova e consegnarono loro una buona parte della cambusa e degli abiti che avevano nelle valigie.

Nel villaggio c’era una piccola chiesa di legno, forse costruita dagli olandesi. Gli abitanti erano un centinaio. Vivevano di pesca e frutta. Portavano a bordo della Explorer dei caschi di banane e ananas in cambio di una bottiglia vuota di vetro, che per loro era qualcosa di prezioso. Il più ricco del paese era un giovane che girava su e giù lungo la riva, sfoggiando una scassata bici da uomo ricavata chissà come, con la sua fidanzata seduta sul portapacchi. Andava avanti e indietro fiero come se avesse una Ferrari. Le strade erano prive di asfalto. I marinai delle navi cisterna sopravvivevano, ricavando frutta e qualche pesce dagli abitanti del villaggio in cambio di un poco di petrolio sottratto alla Texaco. Il crudo veniva utilizzato come se fosse asfalto: i malesiani lo buttavano sulla terra nuda e per un poco di tempo avevano meno polvere nelle capanne. Finito il villaggio iniziava la foresta, dove c’erano cartelli con su scritto Attenti alle tigri! Vi erano maree di 15 metri, così che quando l’acqua scendeva la superpetroliera si depositava sul fondo dal quale spuntavano alghe e piante apocalittiche che arrivavano fino alla linea di galleggiamento.

Queste erano le vite nel Giappone e nella confederazione indonesiana, che oggi galleggia sul petrolio e dove svetta la Merdeka Tower. A giudicare dai barzellettari contenuti degli ex voto promessi dai partiti agli elettori, dovremo stare attenti a non fare la fine dei marinari delle due navi cisterne della compagnia genovese.

Aggiornato il 26 agosto 2022 alle ore 10:24