I dittatori, prima, durante e dopo Mussolini

In aggiunta a ciò che scrissi più di sette anni fa sul medesimo argomento, con un titolo diverso e con altre riflessioni, sulla base dello stato dello Stato di quel tempo, voglio dire alcune cose sopra i tanti dittatori della Storia. Da un sondaggio di quell’anno venne fuori testualmente: “Il 40 e più per cento degli italiani invocano un dittatore, ma poiché molti intervistati mentono per non avere guai, visto che gli astenuti alle elezioni politiche sono la metà, e che i comunisti o le sinistre in genere votano sempre, tutte unite e compatte (come al grido: “Dio lo vuole” dei crociati), è ragionevole pensare che la percentuale dei favorevoli alla dittatura sia di gran lunga superiore”.

In Italia, ha scritto Vittorio Macioce, “il dittatore è l’altra faccia di chi non vota. Come il vero amico si vede nella sventura così il dittatore lo si invoca in periodi come quello che stiamo attraversando, un periodo di crisi che sembra non avere altro sbocco che quello di un uomo forte, un nuovo Duce, che prenda in mano la bacchetta” (non il manganello o il bastone, e tanto meno le spranghe di ferro, che cominciarono a usare, per primi, i comunisti), “e, intonando una nuova marcia (cioè cambiando la musica) metta in riga gl’Italiani”.

D’altra parte, Benito Mussolini, inizialmente, alla dittatura non ci pensava nemmeno: nel suo programma politico del ‘19 dichiarò in modo chiaro ed esplicito: “Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura”. Lo confermò persino Palmiro Togliatti: “È un grave errore”, disse, “credere che il fascismo sia partito dal 1920, oppure dalla marcia su Roma, con un piano prestabilito, fissato in precedenza, di regime di dittatura”. Ma di fronte a un popolo di matti furiosi non c’era altra scelta che la camicia di forza. “Io mi domando”, esclamò un giorno il Duce, “se viviamo in un manicomio o in un mondo di persone ragionevoli. Io la libertà di fracassare le vetrine, rovesciare i cordoni dei carabinieri e assassinare i soldati alle spalle non la do e non la voglio dare, anche perché coloro che me la chiedono sono quelli che, se domani l’avessero, l’annullerebbero di fatto”.

Quanto alla libertà di stampa Mussolini disse di essere stato “costretto a limitarla” (non a eliminarla, in quanto allora in ogni campo funzionava già la censura) “perché gli allarmanti articoli di certi giornali screditavano l’Italia all’estero e provocavano conflitti nel nostro Paese”. Come fece ai tempi nostri Antonio Di Pietro, che comprò un’intera pagina di un giornale straniero per denigrare un personaggio ch’era Capo del Governo. Ma già nell’Ottocento c’era un grande letterato che nel suo Conciliatore denunciava quest’abitudine della nostra Informazione, e lo scrisse anche Papini.

Accennando all’enorme potere dell’Informazione Mussolini aggiunse: “Quando la Stampa eccede nei suoi privilegi e mostra di non rendersi conto della sua tremenda responsabilità, il Governo deve porre fine ad un abuso consimile”. Il relatore di quella legge dichiarò: “Il Governo non assume il monopolio dello spaccio della verità, ma semplicemente impedisce la diffusione di notizie false o tendenziose e perciò nocive alla Nazione. Come si impedisce la vendita di alimenti nocivi, ritirandoli dal commercio, così devesi impedire la diffusione delle menzogne dannose”. Oggi si usa dire, ipocritamente, che tutte le opinioni sono “legittime”, e invece non lo sono quando si tratta di menzogne palesi (come scrisse Vittorio Sgarbi, anche sul mio Conciliatore nuovo).

D’altra parte, Mussolini aveva dietro di sé una lunga schiera di dittatori, a partire dagli antichi Romani per i quali la dittatura era un fatto di ordinaria amministrazione, che si verificava spesso, dato che nella storia romana i dittatori sono stati almeno una cinquantina. Giusto per citarne alcuni a caso: Quinto Fabio Massimo, Cincinnato, Furio Camillo, Appio Claudio Cieco, Lucio Papirio Cursore, Lucio Cornelio Silla, e naturalmente Giulio Cesare. Ma anche nella storia d’Italia i dittatori non sono mancati. E non mancano ai giorni nostri (non faccio nomi per carità di patria). D’accordo, fanno ridere, ma oggi molti dicono così anche di Mussolini, definendolo “un pagliaccio”, “una caricatura grottesca degna soltanto di essere irrisa”, un “buffo del varietà”, “un personaggio da circo equestre”, uno che “si mascherava da condottiero”, un “falsario”, un “fallito”, un “servo”, un uomo “malato di un sentimento vendicativo d’inferiorità”, un “vassalluccio d’intrallazzo”, un “arrivista mediocre”, il “predappiofesso”, un “ladro di pentole e di casseruole a tutte le genti”, “un maledito Merdonio dictatore impestatissimo”, e via di questo passo. Sono cinquanta gli epiteti osceni e assurdi attribuiti al Duce da Carlo Emilio Gadda, uno dei tanti voltagabbana.

Gl’Italiani in fondo la dittatura ce l’hanno nel sangue. Siamo un po’ tutti dittatori, basta vedere i dibattiti televisivi, politici e non politici, in cui ciascuno pretende di avere sempre ragione e di guidare lui la discussione, o più precisamente la lite, o il battibecco. Giacomo Leopardi diceva che “le conversazioni d’Italia sono un ginnasio dove colle offensioni delle parole e dei modi s’impara per una parte e si riceve stimolo dall’altra a far male ai suoi simili coi fatti. Nel che è riposto l’esizio e l’infelicità sociale e nazionale. E questa è la somma della pravità e corruzione dei costumi”.

Dategli solo l’occasione e vedrete se certi tipi non diventano dei dittatori a tutti gli effetti. Silvio Berlusconi impallidisce di fronte ai veri o potenziali dittatori che ci sono in giro. Renzi, invece, è sulla buona strada. Giuseppe Garibaldi non fu dittatore, della Sicilia, di Napoli e di Salemi? E Cola Di Rienzo? È stato il primo “duce” italiano (per molti versi simile a Mussolini). Almeno fin dal Trecento parecchi italiani il dittatore lo sognavano e lo invocavano. L’Italia era piuttosto mal messa: da quella di Dante, “serva e di dolore ostello, nave senza nocchiero in gran tempesta, non donna di province ma bordello”, a quella di Petrarca, “vecchia, oziosa e lenta”, poi a quella di Machiavelli, “battuta, spogliata, lacera, corsa”, e così via, senza che mai si risolvesse il problema. Da qui l’attesa di un personaggio, un Messia, un Uomo della Provvidenza, nazionale o forestiero – che fosse il Veltro di Dante, lo Spirto gentil di Petrarca, il tiranno di Machiavelli o il Bonaparte liberatore di Foscolo – capace di risollevare le sorti tutt’altro che “magnifiche e progressive” del Paese. Per gli Italiani, diceva Stendhal, “ci vorrebbe un Napoleone. Ma dove lo si va a prendere?”.

Cola Di Rienzo è stato il primo a voler riscattare gl’Italiani dalla loro inettitudine, dalle “dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio” (come diceva d’Azeglio), a riesumare le vetuste glorie di Roma per fare di questa la capitale dell’Italia unita e dell’Europa intera, perché solo così – pensava – si sarebbe posto fine alle discordie e alle lotte intestine che travagliavano il Paese. Come raccontano i cronisti del tempo, Roma era allora “una tana di predoni” che da Cola di Rienzo “vennero assoggettati alla disciplina di un accampamento militare o di un convento”. Egli infuse negli animi una tale paura che “scomparvero ladroni, omicidiali, malefattori, adulteratori e ogni persona di mala fama: lassavano le case, li campi, le vigne, le mogli e li figli. Allora le selve si cominciarono a rallegrare, perché in esse non si trovava ladrone; allora li bovi cominciarono ad arare; li pellegrini cominciarono a fare la cerca per le santuaria; li mercatanti cominciarono  a passeggiare, cominciò la giustizia a prendere vigore; notte e die camminavano liberamente li viatori, li vetturali lassavano le some nelle strade pubbliche e bene le ritrovavano sane e salve”. Purtroppo durò poco, e si trattava solo di Roma (Roma ‘ladrona’ non è un’invenzione della Lega).

Un giorno Cola Di Rienzo, amante com’era dello spettacolo, della messinscena (tale era il fascismo per gli storici di oggi, “un’epopea di cartapesta”, “una immensa rappresentazione inebriante”, un “campionario di psicopatologia collettiva”), fastosamente vestito di viola, un colore che è sinonimo di dignità, intelligenza e saggezza (Mussolini indossava l’orbace grigioverde), con gli speroni d’oro e la spada sguainata, ricevette l’investitura a cavaliere, dopodiché si affacciò al suo “fatidico” balcone per mostrarsi al popolo e riceverne gli applausi. Un altro giorno, sempre pomposamente vestito, si fece incoronare via via con sei corone, che rappresentavano i doni dello Spirito Santo, e, man mano che un prelato gliene metteva una sul capo, uno straccione gliela strappava (vanitas vanitatum!), finché in testa non gli rimase che l’ultima. Anche questa cerimonia ricordava i condottieri dell’antica Roma quando celebravano il trionfo e i soldati avevano la libertà di schernirli con frasi offensive.

Pieno di un’ambizione che faceva a pugni con la realtà di un popolo inetto, che tuttavia lo idolatrava perché vedeva in lui quello che avrebbe voluto essere, anche Cola cercò di risvegliare negli Italiani la coscienza missionaria degli antichi Romani, trascinandoli in guerre a cui non erano preparati. Ma quella sua glorificazione non durò a lungo, alla fine pure lui cadde in disgrazia e il popolo, quello stesso ch’egli aveva cercato di riscattare e che lo aveva acclamato come salvatore della patria, colpito da nuove gabelle (attento, Matteo!), si ribellò e a un certo punto incendiò le porte del Campidoglio (Ignazio, attento anche tu!). Egli allora, travestitosi da pezzente e alterando anche la voce, cercò di scappare, ma venne riconosciuto dai braccialetti che aveva dimenticato di togliersi (vedi Mussolini fuggiasco col cappotto tedesco e l’elmetto). Alla fine un popolano impugnò uno spadino e lo colpì al ventre, e dietro di lui altri infierirono, quando ormai era già morto. Il suo cadavere fu appeso per i piedi a testa in giù in un piazzale, dove rimase esposto per due giorni all’ira bestiale e allo scempio dei più facinorosi. Nulla di nuovo sotto il sole italiano.

Non c’è niente da fare, gl’Italiani a un certo punto della loro travagliatissima storia riscoprono, sempre, la dittatura. Poi cercheranno di abbatterla (anche perché sono dei voltagabbana), e l’abbatteranno, con l’aiuto dell’Unione europea, perché l’America, scottata una volta, non vorrà più saperne (“Gli Americani non sarebbero mai sbarcati in Italia se non li avessero chiamati alcuni porci italiani”, disse Eisenhower), ma dopo vent’anni o giù di lì l’invocheranno ancora. Perché gl’Italiani sono fatti così, anzi, “non sono fatti”, come diceva d’Azeglio, non sono fatti per la democrazia, come diceva Churchill. Ci provano a fare i democratici, ma poi litigano anche all’interno di uno stesso partito e fanno le scissioni! Come al tempo dei guelfi e dei ghibellini: “A Firenze”, ha scritto Machiavelli, “in prima si divisono intra loro i nobili, di poi i nobili e il popolo, e in ultimo il popolo e la plebe; e molte volte occorse che una di queste parti, rimasa superiore, si divise in due” (come il nostro attuale partito di maggioranza: in Parlamento, perché nel Paese non è così).

Qualcuno, per burla, ha iscritto il Duce al Pd, come se anche da morto potesse risollevare le nostre sorti. Chissà… Bisogna chiedere a Romano Prodi di evocarlo. In fondo che male potrebbe fare, oggi, all’Italia un dittatore? Non potrebbe avere ambizioni espansionistiche perché ormai al punto in cui siamo non c’è più niente da aumentare (e le vacche sono sempre più magre), c’è solo da diminuire: le tasse, il numero degli immigrati, dei raccomandati, dei promossi agli esami di maturità, dei corrotti, dei politici, dei burocrati, degli impiegati della Rai, degli stipendi a certi conduttori televisivi, ai calciatori e ad altri. Forse con tutte queste diminuzioni aumenterebbero, automaticamente, il senso della misura, il buon senso, il buon gusto, il senso del dovere, dell’onore, della decenza, la concordia, l’unità e in definitiva l’amore per il proprio paese. Pensiamoci bene, dunque, prima di condannare la dittatura. Un popolo ha il governo che si merita: se a un certo punto arriva il dittatore vuol dire che, coscientemente o no, l’ha partorito lui. 

Anime belle, visto

che voi ci raccontate

solamente i misfatti

dei fascisti, ascoltate.

Incominciaste voi

nel primo Dopoguerra,

insultando gli eroi,

prendendovi la terra,

inquinando i canali

e gli abbeveratoi,

massacrando animali,

mucche, pecore, buoi.

Strappavate ai soldati

dal petto le medaglie,

prendevate a legnate

anche i carabinieri,

di morti riempivate

le strade e i cimiteri.

Un biondo sognatore

sopra un ponte dell’Arno

issava un tricolore,

pallido il volto e scarno,

quando un branco di lupi

lo spinse oltre il muretto

e lui precipitò.

 

Dopo una settimana

due giovani studenti

nei pressi di Sarzana

con roncole e tridenti

furono fatti a brani

e poi selvaggiamente

gettati come cani

dentro l’acqua bollente.

E le aziende incendiate?

Le violenze ai padroni?

Le fabbriche occupate?

E le devastazioni?

Facevate gli eroi.

Questo il vostro abbiccì.

I primi foste voi.

Gli altri vennero dopo,

muovendo alla difesa,

o al solo e puro scopo

di vendicar l’offesa.

Del resto allora Croce

chiamava, com’è noto,

“grande industria del vuoto”

la scuola socialista,

che parlava, parlava,

faceva tanto chiasso,

ma non creava niente.

Con un piano insensato,

contrastando il destino,

spianavate il cammino

al ras di un altro Stato.

“Faremo come i Russi,

come Lenìn faremo!”

era, fra botte e bussi,

il vostro grido estremo.

Così, di questo passo,

inviperiti e scaltri,

voi lanciavate il sasso

e accusavate gli altri.

Fu questa l’atmosfera

in cui nacque il Regime:

altra strada non c’era.

Oggi questo antefatto

sui libri non ha testo,

ma è dal vostro misfatto

che venne tutto il resto.

Quando furono andati

i fascisti al potere,

Giolitti ai deputati

dichiarò soddisfatto,

e anche un po’ commosso,

che il Duce aveva tratto

il Paese dal fosso.

E papa Ratti disse

che il Duce era un “Messia”,

“l’Uomo della Divina

Provvidenza”. Non basta

a farvi rinsavire?

Senza il vostro intervento

mai non sarebbe stato

soppresso il Parlamento,

né sarebbe slittato

il nascente fascismo

dalla democrazia

sulla funesta via

del totalitarismo.

Poi, caduto il fascismo,

con mille astuzie ed arti,

invertiste le parti:

eroi del vittimismo,

riscriveste la Storia,

capovolgendo i fatti,

facendo il prima il dopo,

mutando i savi in matti.

Riempiste allo scopo

volumi su volumi,

spargeste nebbie e fumi.

C’impartiste lezioni,

faziosi e sbrigativi:

voi tutti quanti buoni,

gli altri tutti cattivi.

Poveri illusi, nati

dall’odio di Caino,

quali funesti fati

vi riserva il destino!

O anime malnate,

che ci fate quassù?

Andate via, tornate

nel numero dei più!

D’una siffatta gente

non si cura la Storia:

non si raggiunge niente

con l’astio e con la boria.

O sbirri inquisitori,

o grandi lestofanti,

che avete dei censori

le facce più arroganti;

che ci buttate addosso

treppiedi e cattedrali.

Un giudice di razza,

con fare tribunizio,

sobillava la piazza:

“Io quello lì lo sfascio!”,

gridava empio e blasfemo.

“Ormai siamo allo sfascio:

ci vuole un gesto estremo!”.

Il gesto venne, infatti.

E tu, candida Rosy,

non dimostrasti ai fatti

sentimenti amorosi

quando dicesti: “Quello

la vittima non faccia,

non si scaldi il cervello:

quel souvenir in faccia

se l’è voluto lui”.

Donna pietosa e casta,

che esempio di saggezza,

d’amore e di bontà!

Mai giunse a tale altezza

la tua cristianità.

Ricordi? Da ministro

snobbavi l’avversario

e con l’occhio sinistro,

snocciolando il rosario,

come rosa da un tarlo,

gli dicevi stizzita:

“Io con voi non ci parlo”.

Quell’altro, pari pari,

con la faccia da prete,

chiedeva agli avversari:

“Ma voi, che cosa siete?”.

Qualcuno ora ci grida:

“Voi siete impresentabili,

nulla di umano avete!”.

La vostra ira epilettica

è fuori dalla Storia,

ché la Storia è dialettica,

ma senza spocchia o boria.

Per più di sessant’anni

ve la siete cantata,

ora la serenata

non incanta nessuno.

Voi non siete migliori,

e lo sapete bene:

fate i denigratori,

i vampiri, le iene

per nascondere agli altri

la vostra povertà.

Ormai da lunga pezza

fra noi non c’è pietà:

se il cerchio non si spezza

niente ci salverà.

Fanatici, alle corte,

cessate di cantare:

con quelle bocche storte

c’è poco da sbruffare.

Tra i salmi dell’Uffizio

c’è anche il Dies irae:

o che non ha a venire

il giorno del Giudizio?

 

         (da Le anime belle degl’Italiani: una minima parte) 

Aggiornato il 22 luglio 2022 alle ore 18:47