Vittorio Emanuele Orlando, a 70 anni dalla scomparsa

Il Principe del Diritto pubblico 

Vittorio Emanuele Orlando (Palermo, 18 maggio 1860-Roma, 1 dicembre 1952), fu, con la sua eloquenza, preclaro nel coinvolgere non solo la capacità di riflessione del Parlamento, ma anche nello infiammare di ardente passione morale e civile il cuore degli italiani tutti, al di sopra e al di fuori di ogni appartenenza. Fu proprio l’equilibrio tra sentimento e razionalità, quello che gli consentì di portare l’Italia alla vittoria: la sua oratoria si rivelò provvidamente funzionale alla causa nazionale e, perciò, fu in grado di aggregare entusiasmo e consenso popolare.

Nel 1881 pubblicò il saggio Della Riforma elettorale, alle soglie del prospettato incremento del suffragio, dal quale ritenne necessario escludere gli analfabeti e le donne, in quanto, per differenti motivazioni, ritenuti influenzabili nella libera espressione del loro voto. Sostenne – per converso – di abbassare l’età richiesta dallo Statuto per l’elettorato passivo, da 30 a 25 anni, onde ringiovanire il Parlamento. Grazie al saggio in parola, conseguì la libera docenza in Diritto costituzionale all’Università di Palermo nel 1882, nel qual anno superò anche il concorso per avvocato. Nel 1886 divenne ordinario a Messina, quindi a Palermo e, dal 1901 a Roma, dove insegnò fino alle dimissioni, rassegnate nel 1931.

Nei Principi di Diritto costituzionale, sostenne sullo specifico tema della rappresentanza politica, che in base allo Statuto, il deputato non rappresentava il corpo elettorale che lo aveva votato, bensì l’intera nazione. Era pertanto in errore la prevalente dottrina, che vedeva nell’elezione una delega di poteri, ovvero un vero e proprio “mandato da parte dei cittadini”, poiché le Assemblee rappresentative non erano l’organo passivo delle loro volontà, ma avevano una “vita propria e indipendente”. Principi questi che valgono anche oggi.

Eletto deputato (1897-1925), divenne ministro della Pubblica Istruzione (1903-1905); Guardasigilli (1907-1909;1914-1916), ministro dell’Interno (1916-1917), presidente del Consiglio (29 ottobre 1917-19 giugno 1919), presidente della Camera (1 dicembre 1919- 25 giugno 1920). Da ministro della Pubblica Istruzione, promosse nel 1904 l’importante riforma della scuola elementare legata al suo nome contro l’analfabetismo, il cui superamento era funzionale a un voto consapevole, onde quella della scolarizzazione doveva essere “una questione superiore ai partiti”. Fu, dunque, elevato l’obbligo scolastico sino a 12 anni di età, e venne estesa la frequenza obbligatoria anche per le classi quarta e quinta; mentre venne istituita anche una sesta, integrativa della quinta per un corso popolare.

Nel 1911 Orlando precisò in merito ai Codici, che per una democrazia che non fosse meramente formale, era necessaria la promozione della cultura popolare, dato che nell’età moderna risultava “in gran parte analfabeta quel sovrano contemporaneo” che era il popolo. Affermò in seguito, che il diritto doveva essere “razionale”, prendendo le mosse da un Parlamento eletto, a sua volta, da persone culturalmente provvedute.

Nel 1913 col Patto Gentiloni si realizzò l’intesa elettorale tra liberali e cattolici, ma nel nuovo contesto il peso dei primi risultò assai ridimensionato; mentre Orlando, superata ogni residua riserva sul voto universale maschile, nutrì una forte diffidenza nei riguardi dei partiti di classe (socialisti e cattolici), i cui deputati dovevano anteporre la disciplina ideologica alle finalità d’ordine generale di cui era depositario lo Stato.

Durante la Prima guerra mondiale, dopo la disfatta di Caporetto Orlando, riuscì a gestire l’emergenza senza ricorrere a misure liberticide e nel memorabile discorso del 22 dicembre 1917, da presidente del Consiglio avvertì che si stava affrontando la situazione più pericolosa che l’Italia avesse mai attraversata dalla sua costituzione all’unità. Malgrado i tecnici in materia militare avessero ravvisato l’impossibilità di opporre resistenza a un nemico preponderante di forze e di armamenti, i nostri soldati avevano anteposto il loro coraggio a ogni ragionamento, realizzando “un evento che l’intelletto aveva ritenuto impossibile, fornendo al Governo e al Parlamento una lezione e un ammaestramento imperioso: resistere!”

Nell’intervento alla Camera del 26 aprile 1918 in tema di diritto elettorale, l’oratore spiegò di aver mutato avviso sul voto alle donne rispetto al passato, precisandone le ragioni: “Non tanto l’opinione pubblica è mutata – disse – sono mutati i tempi: è mutata la maniera di considerare il problema”, poiché in seguito all’accresciuto impiego della manodopera femminile, moltiplicatosi nel periodo bellico, gli era parso opportuno trarne delle conseguenze anche sul piano del diritto in parola. L’estensione avvenne – per le forti pressioni di cattolici e socialisti – limitatamente ai cittadini maschi che avessero compiuto il 21° anno di età e, prescindendo da tale limite, per tutti coloro che avessero prestato servizio nell’esercito mobilitato. Fu poi introdotto il sistema proporzionale, voluto da cattolici e socialisti, trovando fortemente critico Orlando.

L’8 novembre 1919 parlò del venir meno delle alte idealità patrie che avevano infiammato il popolo: ora si parlava della bilancia commerciale, dell’ammontare della circolazione monetaria, del debito pubblico e dello Stato dei nostri rifornimenti; ma il nuovo “realismo” con la sua inesorabile precisione, non solo non aveva portato alcun miglioramento alla finanza pubblica, ma anzi, aveva coinciso con il suo peggioramento.

Nominato presidente della Camera il 2 dicembre 1919, affermò che per nessun motivo i Parlamenti, dovevano essere campo di violenze e di sopraffazioni. Nel 1921, vigilia elettorale, lo Statista parlò degli indebiti arricchimenti di speculatori senza scrupoli, di risse fratricide e di lotte tra i partiti. Tra le motivazioni del caos generale, indicò il sistema proporzionale, nel quale alcuni problemi imputati al vecchio uninominale si erano aggravati, dal campanilismo, alle pressioni particolaristiche sui deputati in spregio al bene comune, il che avrebbe portato inesorabilmente al crollo delle Istituzioni.

Nel 1923 fece parte della Commissione che preparò la legge elettorale Acerbo per cui il partito che avesse conseguito almeno il 25 per cento dei voti, avrebbe automaticamente conseguito la maggioranza dei seggi. Ciò parve all’Orlando accettabile solo per la Salus suprema rei publicae, in un una temporanea eccezionalità. Seguì alle elezioni del 6 aprile 1924 la vittoria scontata del Regime, dove il cosiddetto “Listone”, comprendente fascisti, nazionalisti, liberali e cattolici, ottenne il 66 per cento dei voti e i due terzi dei seggi. Svanita dopo il delitto Matteotti l’illusione di una compatibilità del Fascismo con le istituzioni liberali, Orlando non aderì alla secessione dell’Aventino, per lottare il Regime dall’interno della Camera.

Il 22 novembre successivo, presentato un Ordine del giorno per il ristabilimento della normalità costituzionale, disse al Duce: “Onorevole Mussolini, non mi domandi che cos’è la libertà. Sono un professore di diritto costituzionale: Ma malgrado ciò e anzi, forse, per ciò, Le dico: Non me lo domandi. La libertà non si definisce: si sente!”. Il 16 gennaio 1925, nella discussione per la modifica della legge Acerbo, affermò che nuove, eventuali votazioni sarebbero state viziate in partenza per l’assenza della possibilità di un libero contraddittorio politico, per cui chiese il ripristino di una vita civile nel Paese. A nulla era purtroppo servita, all’indomani del discorso liberticida pronunziato dal Duce il 3 gennaio, la richiesta che Orlando aveva rivolto al Re per indire nuove elezioni e formare un nuovo Governo di unità nazionale: nessuna risposta!

Il 6 agosto 1925 si dimise da deputato, e tre anni dopo rifiutò, coerentemente, la nomina a senatore e a presidente del Senato, offertagli da Mussolini in persona. Durante la stasi del Ventennio, al Palazzo di Giustizia capitolino sopravvisse, tuttavia, un’oasi di relativa libertà attraverso la dialettica giudiziaria, tanto che Orlando soleva dire che “si sentiva veramente libero soltanto quando varcava il portone del Palazzaccio di via Ulpiano”.

Nel 1943 Orlando suggerì al Re che, essendosi affermato il Fascismo con un colpo di Stato contro il Parlamento, occorreva procedere a “un colpo di Stato inverso” attraverso l’intervento della Corona, per il ripristino delle violate libertà statutarie. Fu scelta invece la forma “pseudo parlamentare” del voto di sfiducia da parte del Gran Consiglio, grave errore non solo per i suoi riflessi interni, ma anche per i rapporti internazionali, poiché si determinò il dubbio sulla definitiva rottura col Fascismo, una volta che il mutamento era avvenuto tramite un organo dello stesso.

Poco dopo la liberazione di Roma, il Consiglio dei ministri considerata la continuità ideale dell’antica Camera dei deputati prefascista con l’Assemblea che gli italiani avrebbero potuto liberamente votare, nominò Orlando, ultimo presidente dell’antico consesso, presidente provvisorio della Camera, nella qual veste rimase fino al 25 giugno 1946. Nel frattempo, alla data del 1° febbraio 1945, venne finalmente concesso il voto alle donne, con i medesimi requisiti richiesti per quello maschile.

Nominato in quota Pli alla Consulta (1945-1946), in antitesi alla Sinistra e in sintonia con i cattolici, sostenne l’indizione di un Referendum istituzionale e l’obbligo del Costituente di adeguarsi ai risultati che ne sarebbero scaturiti per sancire la futura forma di Governo.  Il 9 marzo 1946 intervenendo alla Consulta confessò di non aver più ferma la concezione dello “Stato di diritto”, nel quale era la stessa sovranità dello Stato ad autolimitarsi, poiché la degenerazione di detto modello nello Stato totalitario, ne aveva rivelato l’artificiosità. Era, invece, utile affermare la supremazia delle Istituzioni che si andavano consolidando nel corso dei secoli, attraverso gli usi, i costumi e la costante osservanza che li supportava, per cui le Istituzioni medesime si ponevano quale argine naturale contro il dispotismo. Spiegò di preferire un’elaborazione legislativa che nascesse “dal basso”, cioè da precise istanze espresse dalla collettività tramite il Parlamento, piuttosto che – come nel caso di specie – “calate dall’alto” dal Legislatore costituzionale.

Eletto alla Costituente, alla seduta del 25 giugno 1946, Orlando, come decano del nuovo consesso elettivo, indirizzò all’Assemblea il suo saluto, auspicando la conciliazione nazionale al di sopra delle divisioni di parte. Nella difficile ricostruzione Ab imis dell’Italia, le cui Istituzioni erano state distrutte dal Fascismo, si delineava un nuovo ordine in cui “i partiti – affermò – da semplici forze politiche, avrebbero assunto figura e caratteri di natura giuridica costituzionale, come organizzazioni delle masse sociali rappresentative del lavoro, considerando quest’ultimo come il fattore ormai assolutamente prevalente nella produzione e nella distribuzione della ricchezza”.

Il Referendum aveva sancito l’avvento della Repubblica, nuova forma dell’unità d’Italia, per cui occorreva “una radicale trasformazione del dovere civico essenziale, che è di onorare questo simbolo, di servirlo con assoluta fedeltà e lealtà, come rappresentativo della Patria stessa, al di sopra e malgrado qualsiasi altra opinione o sentimento, o ideale che si sia professato o che possa ancora essere professato”.

Sulla bozza della Costituzione intervenne il 10 marzo 1947, rilevando – tra l’altro – la vaghezza dei rapporti tra Governo e Parlamento e alcune carenze circa i limitati poteri del capo dello Stato. Fu in tale seduta che Orlando, parlando dei diritti sociali ed economici, proclamò il contestuale dovere della società di provvedere ai mali che poteva cagionare, quali la disoccupazione, l’indigenza, il vizio, il delitto.

Nella nuova Costituzione rilevò un eccesso di norme di indirizzo generale rivolte al futuro laddove, a suo avviso, la Carta avrebbe dovuto occuparsi solo del presente. Si oscillava tra l’ovvietà e la superficialità di una formulazione tecnicamente impropria, in tema di rapporti etico-sociali, famiglia, scuola, salute, arte, scienza, con “l’errore di volere scrivere tutto nella Costituzione”, che era per di più di tipo rigido e che, in taluni casi invadeva materie già regolate dai Codici.

Malgrado siffatte riserve, nel momento in cui la Costituzione stessa aveva ricevuto la sua “consacrazione laica”, essa si poneva al di sopra delle discussioni delle varie scuole di pensiero giuridico, per cui affermò: “Noi dobbiamo a essa obbedienza assoluta, perché io non so concepire nessuna democrazia e nessuna libertà, se non sotto forma di obbedienza alle leggi che un popolo libero si è date”. Era il medesimo atteggiamento, moralmente e giuridicamente motivato, che aveva assunto in occasione dell’esito del Referendum che aveva visto il prevalere della Repubblica sulla Monarchia.

Lo stesso dicasi per le riserve espresse nel 1949 sull’adesione italiana al Patto Atlantico, non certo perché preferisse quella che chiamava la “tirannide russa”, bensì per amarezze non sopite risalenti all’atteggiamento dell’America verso l’Italia nel 1919, nonché per la mancata adesione dell’America medesima alla Società delle Nazioni. Ciò nonostante concluse da par suo: “Ad ogni modo, il giorno in cui il Patto Atlantico si trasformi in azione, il mio posto è là dov’è il Tricolore, dov’è l’Italia. E in questo senso, io approvo il Patto Atlantico”.

In tema di sinergie internazionali, coerentemente con la sua impostazione di riforme che dovevano sempre prendere le mosse “dal basso”, nell’ultimo discorso, il 18 luglio 1952, presagendo l’obiettivo di indire una Costituente europea, vale a dire creare un nuovo Stato, affermò: “Io non vorrei che fosse vero che attraverso un collegio, una commissione, un’organizzazione, si crei un potere occulto, non controllato, che non proviene dagli Organi costituzionali dei singoli Paesi, il quale un bel giorno ci farà la sorpresa di convocare i Comizi elettorali! Io la questione europea la vedo soltanto sotto quest’angolo visuale: la questione franco-tedesca”.

Quali ultimi atti della sua ancor vigile azione politica, si oppose alla cosiddetta “Legge truffa”, mirante a conferire un premio di maggioranza alla coalizione che avesse superato il 50 per cento dei suffragi. Nel saggio che rimase incompiuto e che fu pubblicato postumo, Sui partiti politici, precisò il termine – da altri ripreso – di “Partitocrazia”, consistente nel tipo di governo, del tutto nuovo e moderno, alla cui formazione concorrevano vari elementi, per cui il partito o il complesso dei partiti che avevano conquistato il potere, creavano “situazioni istituzionali dirette formalmente e meccanicamente a conservarlo”, il che comportava “l’effetto pratico di annullare, o di ridurre di gran lunga, quell’elemento della volontarietà e, quindi, della libertà”.

A sintesi dell’esistenza operosa dello Statista, va evidenziato che pur tradizionalmente fautore del sistema uninominale, era giunto alla conclusione che non esistevano dei sistemi elettorali in assoluto validi e migliori di altri, poiché il giudizio su ciascuno di essi andava commisurato alle circostanze concrete. Ecco allora che l’uninominale si rivelava un sistema solido nell’ambito di una democrazia liberale, consentendo stabilità governativa, al di fuori di contese frutto della parcellizzazione politica, che potevano portare a una degenerazione del quadro politico ed economico. Diverso era il caso di un sistema oppressivo della voce delle minoranze, nel qual caso l’uninominale “blindava” la voce preponderante soffocando le altre, e quindi favorendo, nel migliore dei casi, la “dittatura della maggioranza”, nel peggiore la dittatura pura e semplice. Alla luce di tutto ciò, i sistemi elettorali, non potevano essere considerati di per sé buoni o cattivi, ma solo in relazione alla loro maggiore o minore congruità per garantire la più ampia stabilità politica possibile, in un quadro di dialettica democratica.

Aggiornato il 26 giugno 2022 alle ore 11:27