“Esterno notte”: non delude la seconda parte del film di Bellocchio

 

Scritta insieme a Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino, con consulenza anche di Miguel Gotor, assessore alla Cultura di Roma Capitale, questa seconda parte di Esterno notte, il film di Marco Bellocchio che scandaglia in profondità protagonisti e vicende del caso Moro, e che attendevamo con curiosità, davvero non delude gli spettatori. Si tratta, anzi, senz’altro della miglior opera cinematografica fra tutte quelle sinora dedicate a quella sorta di “Discesa agli inferi” che per il Paese rappresentarono, in tutti i sensi, i due mesi del sequestro di Moro, dalla strage della sua scorta in Via Fani il 16 marzo del 1978 al ritrovamento del suo cadavere, nella famigerata R4 rossa in Via Caetani, il 9 maggio. Proprio mentre il Consiglio nazionale della Dc discuteva della possibilità, per lo Stato, di liberare alcuni Br da tempo in carcere facendo una trattativa che non sembrasse una trattativa; e, soprattutto, senza giungere a un riconoscimento delle Brigate rosse come avversario politico, sul modello dell’Olp palestinese o dell’Ira.

Dicevamo, già recensendo la prima parte del film, uscita nelle sale il 19 maggio (ma tutto il film sarà nuovamente visibile in tv in autunno, come fiction Rai, durata 5 ore e mezzo circa), del forte spessore degli interpreti. Fabrizio Gifuni giganteggia, nei panni di un Aldo Moro insieme politico accorato e (democristianamente) astuto, padre saggio, marito affettuoso e vittima degli eventi (memorabile il possibile episodio, la sera dell’8 maggio 1978, in cui il prigioniero di via Montalcini riceve il conforto della visita d’un sacerdote, che gli porta la comunione). Mentre Margherita Buy è una più che convincente Eleonora Moro, che non smette mai di lottare (altrettanto notevole, la scena dell’altro possibile episodio d’una telefonata che secondo la Caritas, mediatrice con le Br, sarebbe dovuta arrivare da Moro prigioniero alla moglie, nella sede dell’organizzazione).

Fausto Russo Alesi (già Giovanni Falcone, sempre per Bellocchio, ne Il traditore), è un vivissimo Cossiga tormentato da incubi e visioni, e alle prime prese con una fastidiosa psoriasi (d’origine chiaramente psicosomatica), che lo tormenterà poi per anni. Toni Servillo interpreta ottimamente Papa Paolo VI, che le tenta tutte per salvare il vecchio amico Aldo, e Fabrizio Contri stupisce nei panni di un Giulio Andreotti che parla il meno possibile, ma colpisce col suo volto impassibile, quasi da maschera del teatro antico, al tempo stesso tragica e grottesca. Infine, Daniela Marra e Gabriel Montesi sono convincenti nei panni dei brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci. I “movimentisti”, fautori d’un più stretto rapporto col movimento studentesco e altri settori ribelli della società, e per questo contrari sino all’ultimo all’uccisione di Aldo Moro, in duro contrasto col leninista “senza se e senza ma” Mario Moretti (Davide Mancini).

Si sofferma appunto sul conflitto interiore della brigatista Adriana Faranda, questa seconda parte del film: che ritrae una madre pronta ad abbandonare tutto, anche, temporaneamente, la figlia Alexandra (ma non il compagno Valerio) in nome della “rivoluzione”; come, a suo tempo, Grigorij Zinoviev (che sembra aver raccontato di non esser mai andato a trovare il figlio, gravemente malato in ospedale, negli anni della guerra civile, post 1917, in Russia!) , o l’altra brigatista Giulia de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana. Mentre davvero da grande cinema è la scena di una decina di Br della colonna romana, uomini e donne, che su una livida spiaggia invernale si divertono e si ubriacano di potere sparando a più non posso in acqua: che ricorda, mutatis mutandis, l’altrettanto celebre scena cult di Gomorra di Matteo Garrone, coi due ragazzi che si esaltano provando vicino al mare le armi sottratte da un arsenale della camorra.

Quasi assente dal film è la ricostruzione (presente, invece, ne Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, del 1986, ed anche, in parte, in Buongiorno notte, prima pellicola di Bellocchio sulla vicenda moro) degli interrogatori delle Br al politico prigioniero; così come (per comprensibile, e giusta, “carità di sceneggiatore”) l’episodio della perquisizione delle forze dell’ordine, nell’aprile 1978, a Gradoli paese (con le sue presunte, grottesche premesse “spiritistico – politiche” menzionate, all’epoca, da Romano Prodi…). Poi, mentre la vicenda si avvia rapidamente verso la sua tragica conclusione, ecco Bellocchio (come già in Buongiorno notte) mettere in scena anche la “storia alternativa”, e riprendere Moro lasciato vivo dai Br nella macchina in via Caetani, per poi ricevere, in una clinica specialistica, la fuggevole, quanto ipocrita, visita dei suoi potenti ex amici di partito, consapevoli delle sue dimissioni (che realmente furono espresse, in una delle sue lettere) da ogni carica e dalla stessa Dc.

Un film di grande spessore: che, diremmo, recupera e riprende il meglio di quella tradizione italiana del cinema politico e di impegno civile che, dagli anni Sessanta- Settanta in poi (da Elio Petri a Giuseppe Ferrara, da Damiano Damiani a florestano Vancini, allo stesso Bellocchio), non è mai venuta meno. E che ricorda, a tratti, sia il mitico JFK di Oliver Stone che Rabin, the last day di Amos Gitai (la pellicola, colpevolmente mai uscita in Italia, tranne poche proiezioni riservate, centrata sui retroscena dell’assassinio, a novembre 1995, del premier israeliano protagonista della trattativa di pace coi palestinesi).

Aggiornato il 14 giugno 2022 alle ore 12:55