Grecia: il pensiero della crisi

Esiste clamorosamente una civiltà greca luminosa, “olimpica”, tutta ebbrezza di vivere, in cerca della felicità, e felice realmente, senza timore della morte, immedesimata nel vivere, libera eroticamente tanto da fare di Eros il Dio essenziale, il crocevia dell’esistenza sicura di possedere la verità e la virtù. È la Grecia non soltanto della Filosofia ma di Omero, dei lirici, dei tragici, delle sculture, dei templi. Sebbene mai popolo concepisse così tragicamente il tragico come i greci, il modo limpidissimo con cui lo espresse crea un paradosso unico, ci sconvolge l’orrore ma ci esalta la maniera con la quale viene messo in forma, il che è l’essenza dell’arte, dai greci recata al vertice. Mai civiltà fu più limpida nel palesare l’oscurità. Nella scultura, nell’architettura, il culto della bellezza bella, della chiara bellezza, è sommo. La Grecia è la civiltà del bello classico.

Allora, tutto perfetto? Abbiamo un popolo gioioso, festoso, riboccante di vita? Un popolo senza morte? C’è da considerare che quanto conosciamo è prodotto dai ceti colti e che la vita popolare sembra non fosse saggia e controllata come negli uomini che aspiravano alla serenità, alla razionalità. Il mondo pagano, a differenza di ciò che si crede, era tutt’altro che irreligioso. Nel linguaggio corrente il termine “pagano” equivale a non credente, senza Dio, Ma è l’opposto: I pagani erano religiosissimi, superstiziosi, ossessionati da segni di buona e cattiva sorte, interpreti di ogni evento a valutare se gli dei fossero amichevoli o nemici, sotto l’incubo del Fato che dominava l’esistenza, giacché per i greci l’uomo non è libero, per la religione greca. Il terrore di quel che sarebbe accaduto dopo la morte dava luogo a scongiuri, paure, fantasie orribili.

Il Mondo dei morti era presentissimo ai greci, ed era un Mondo buio, di ombre spente. Il timore di una brutta sorte imperversava nel Mondo e nel Sottomondo, da vivi e da morti, quindi credenze, sacrifici, tentativi di ottenere il favore degli dei. È questa la ragione che spinge taluni filosofi, sopra tutti Epicuro, e, dopo, il romano Tito Lucrezio Caro, a combattere quella che ritengono una superstizione religiosa, vale a dire l’immortalità dell’anima, la possibilità di castighi, col giudizio degli Dèi. Può sorprendere questa posizione ma soltanto se crediamo che tutti i greci non temevano la morte, erano razionali, non oltrepassavano la terra, si confortavano di una serena mortalità, ma non è così’.

Già Pitagora ed Empedocle, innanzi tempo a Platone, ritenevano, prendendo dall’Induismo, che l’anima si reincarnasse e si potesse degradare. L’Idea della degradazione in bestia forse più che il ciclo del sottomondo terrorizzava i greci. Ma se questo è il punto doloroso del mondo greco, il quale, dunque, a differenza di come appare comunemente, si incagliò nella tragedia della morte, relativamente, non meno drammatica fu la questione della “verità” sebbene, anche in questo caso, sembrerebbe che tutti i greci fossero convinti di riuscire a conquistare la conoscenza del vero, in effetti la pressoché generalizzata sfiducia nei sensi, faceva conseguire siffatta opinione, l’uomo possedeva dei sensi i quali potevano ingannare, e poiché molti filosofi non erano convinti che esistesse una conoscenza che andasse oltre i sensi, l’uomo era in preda all’incertezza, sì che al dunque sia sulla morte sia sulla conoscenza parte della mentalità greca pativa afflizioni e dubbi, I filosofi di cui ora parleremo si pongono tra soluzione e delusione sui problemi che costituivano il pensiero greco

Le scuole socratiche

I Cinici

Le correnti problematiche o di minore fulgore affermativo sorgono in Grecia fin dal periodo “classico” il termine “cinico” nell’impiego corrente denota spietatezza, egoismo, spregio. È un uso distorto del termine. Come in altri casi, ad esempio il termine “epicureo”, inteso come uomo trascinato dal godimento, i termini sono storpiati da chi ha concezioni opposte, di solito per screditare le altrui concezioni. I cinici infatti non erano minimamente spietati, semmai lo erano con loro stessi. Il Cinismo deriva da Socrate, il quale aveva celebrato la virtù, implacabilmente e che, senza la minima debolezza e deplorazione, accettò la morte pur se considera ingiusta, per obbedienza alle leggi dello Stato. I Cinici esaltano anch’essi la Virtù ma ritengono che per osservarla occorre negare la società, la loro è una virtù asociale, anche antisociale, e la praticano scegliendo valori fuori regola, non la ricchezza, non gli abiti correnti, non i cibi come in uso, un’esistenza povera, addirittura misera, spoglia pure fisicamente, raminga.

Per i Cinici la conoscenza viene dalla sensazione, l’uomo può radunare, collegare sensazioni e concepire concetti, poniamo: vedo alcuni alberi e formulo il concetto di albero, ma il concetto per i Cinici non ha esistenza, è soltanto un termine, una parola, sono dunque avversi a Platone che riteneva esistenti le Idee. Molto nota la morale dei cinici, del tutto asociale e perfino antisociale, ripeto: povertà, negazione del piacere, rifiuto dello Stato, della famiglia, della religione, sentirsi cittadino del mondo, crearsi l’autosufficienza, rendersi indifferente (Adioforia). Iniziatore della Scuola Cinica fu Antistene, celebre Diogene, che mostrava materialmente la filosofia che seguiva, miserrimo, volutamente lordo, esposto al caldo, al freddo, nemico di ogni grandezza come socialmente reputata, accanito nella negazione di ogni riconoscimento consueto, orgoglioso del suo rifiuto. Il Cinismo, come mentalità continua ad esistere, ed è esistito in ogni epoca.

I Megarici

Se i Cinici si legavano a Socrate recando all’estremo la Virtù, i Megarici, Scuola fondata da Euclide, non il matematico, riprendono la questione della conoscenza più che la questione morale. Come sappiamo, tutta una corrente filosofica greca che raggiunge l’estrema formulazione in Platone iniziando da Parmenide e raggiungendo Socrate, per usare termini adeguati ad un viaggio del pensiero, svaluta, irride la conoscenza mediante i senso, i sensi ci ingannerebbero, ci fornirebbero una conoscenza secondaria, non danno stabilità né universalità.

I Sofisti e, dopo, gli Epicurei, in modi diversi, si limitavano alla conoscenza sensoriale e non concepivano idee o concetti stabili e universali, i Megarici tentarono una via conciliativa; esisterebbero, affermano, due forme di conoscenza, la conoscenza mediante i sensi, che consente la percezione del divenire, della molteplicità, è una conoscenza ingannevole, la conoscenza veritiera la dobbiamo, sostengono alla Ragione che mediante l’Anima attinge l’Essere che ha le caratteristiche enunciate da Parmenide e da Platone, l’Essere è immutabile, eterno, Questo Essere immutabile, eterno, vera realtà è anche il Bene. Bene ed Essere si congiungono ma, continuano a dire i Megarici, se il Bene e l’Essere si congiungono, il Male, non essendo Bene, non è Essere, quindi il male è non Essere, dunque il Male, non è, pertanto il Male non esiste secondo i Megarici.

I Cirenaici

Nel IV secolo a. C. sorge la Scuola Cirenaica, appunto a Cirene, dovuta ad Aristippo, seguace di Pitagora e di Socrate. Nel conflitto tra prevalenza della conoscenza mediante i sensi e predominio della conoscenza mediante la religione, Aristippo sostiene che la conoscenza la attingiamo dai sensi. Ed i sensi ci fanno conoscere le cose a mezzo delle nostre sensazioni, non le cose in quanto tali, non l’oggetto ma quel che sento dell’oggetto, le mie sensazioni dell’oggetto. Questa è l’appropriata conoscenza, per Aristippo, cogliere sensazioni fluenti, mutamenti, instabilità, questa è la vera realtà. Per sentire occorre un soggetto che si volge all’oggetto. È la Morale l’aspetto maggiormente significativo dei Cirenaici.

Aristippo riconosce che la felicità è il fine dell’esistenza, concezione diffusa nella civiltà greca, Socrate aveva stabilito che la Virtù è la ragion d’essere della Felicità, non può esistere felicità se non mediante la virtù, nella virtù. Aristippo, che usa il termine piacere, sostiene che è il piacere, il piacevole a costituire il bene. Quel che dà piacere è il bene, Il piacere corporeo, immediato, sarebbe, per la sua concretezza ed afferrabilità da preferire al piacere spirituale, piuttosto evanescente. Mai però estremizzare i piaceri, ne verrebbe perdita di controllo, sazietà, meglio dosare i piaceri e soddisfarli non esaurendoli con sfrenatezza.

Aggiornato il 28 marzo 2022 alle ore 16:42