Il rischio? la deindividualizzazione

Il fascicolo appena pubblicato della Rivista di studi politici internazionali, quasi un secolo di esistenza, a lungo diretta da Giuseppe Vedovato e da anni a guida puntigliosa e di larga comprensione da Maria Grazia Melchionni contiene, tra i molti testi, un lungo mio saggio: Fenomenologia di una rivoluzione silenziosa. L’uomo nuovo tra pandemia e globalizzazione. Come ho scritto spesso, quel che sta avvenendo non rientra soltanto nel territorio politico ed economico. È la formulazione di un uomo che nel testo definisco “uomo globalizzato”. Chi è l’uomo globalizzato? Un uomo diversissimo dall’uomo del passato, che era un uomo individualizzato. Dalla Grecia in avanti l’uomo occidentale, per circoscrivere l’analisi, considerò l’individuo il risultato perfetto della natura, l’individuazione.

A uno piace nero ad uno rosso, uno mangia carne, l’altro legumi, uno crede in un Dio l’altro in nessun dio, uno ha il passato diverso dall’altro, insomma siamo diversi e disuguali e soprattutto scegliamo, certo, in un ambito limitato, non tutto è permesso ma è permesso poter accogliere e rifiutare. L’individuo è proprio colui che se accetta può anche respingere, può dire sì ma può dire no. Chi è invece l’uomo globalizzato? È colui che riceve la realtà dall’esterno, eterodiretto, non deve rifiutare, pone tutto sullo stesso piano, questo o quello sono pari, che il nostro Paese sia colmato di stranieri che ci sostituiscono, va bene, siamo tutti uomini; che i vermi siano appetibili quanto le bistecche, va bene, sono tutti alimenti; che una persona sia né maschio né donna, va bene , siamo tutti viventi; che il robot sostituisca l’uomo, perfetto, chi lavora lavora; che il latte venga dai piselli secchi, eccellente, basta dichiararlo latte! Nel mio testo affermo che al di là delle apparenze clamorose, pandemie, guerre, orribili, la più devastante situazione viene da questa radicale negazione dell’individuazione, con il rischio di una umanità all’ammasso, senza capacità di scelta, anomica, indifferenziata, eterodiretta e ricettiva, condizionata dai mezzi di comunicazione ed altre forme di peggiore condizionamento (microchip, nanotecnologie).

Non basta dirsi società democratiche se le democrazie possono in tal modo suscitare l’uomo globalizzato deindividualizzato. Nessuna tradizione, nessun margine nazionale, nessun localismo, rendersi “aperti” ad ogni merce, rendersi empatici, senza pregiudizi, insomma non dire mai no. Non più questo o quello ma questo e quello. È l’attacco all’individuazione il vero morbo odierno e futuro. Individuazione che vale per le persone ma anche per le comunità. La china è una sorta di società universale intercambiabile. Come dico nel saggio. Potremmo pervenire all’autoindifferenza: se gli stranieri ci sommergono di nascite, nella società dell’individuo deindividualizzato non vi è preferenza, dicevo, tutto si equivale, e guai a conservare qualcosa di proprio (cancellazione culturale). C’è da contrapporre alcunché a tanto genericume indifferenziato? Certo.

Il valore delle scelte “qualitative”. Negare radicalmente che per essere globali bisogna perdere l’identità. L’opposto, quanto più siamo diversi, meglio ci precisiamo e poniamo la nostra identità nel mondo. Rendere l’individuo (anche una nazione ha una sua individualità) mondiale non mondiale l’individuo. A rendere globale l’individuo , l’individuo non è più l’individuo. È tutto e nessuno. Lo è se come individuo pone nel mondo la sua individualità. C’è un equivoco micidiale, non annientare l’individuo per farsi globali, ma potenziare l’individuazione ponendola nel globo (mondo).

I mezzi tecnici deindividualizzanti possono, potrebbero invece favorire una società prosperosa, sana, esploratrice di altri mondi. Dobbiamo scegliere. L’individuo individualizzato nel globo, non il globo nell’individuo deindividualizzato, come una prosecuzione del mercato globale da subire passivamente. Altri saggi, articoli, recensioni colmano il vasto fascicolo. Il tema/problema della deindividualizzazione lo pongo anche in termini politici nel valore culturale, filosofico della politica. Cogliendo nelle società occidentali un equivoco desolante, ci crediamo liberi in quanto siamo liberi di degradarci. Tutto ciò che si sta svolgendo da noi è degradante, dalla sessualità, all’alimentazione, dalla sostituzione robotica dell’uomo, al condizionamento gregario delle masse, alla repulsione verso la cultura.

Che vi sia empito di civiltà non se ne coglie lo spiffero, e disgraziatamente si ritiene civiltà esclusivamente la tecnologia. Sicché le relazioni tra le società andrebbero valutare anche se vi è relazione di civiltà, arte, cultura, può accedere che ritenendoci prossimi a società libere (il liberalismo è ben altro, è civiltà) siamo liberi come libertà di degradarci. Per dire facilmente: liberi di suscitare la carne sintetica. O l’orgoglio trans avverso il sesso corrente che si deve intanare vergognandosi. Sarebbe necessarissima una sostanza alla libertà, altrimenti la libertà diventa, insisto, libertà di rovina. Anche di questo scrivo nel saggio.

Aggiornato il 23 marzo 2022 alle ore 12:48