L’economia non è matematica ma esercizio critico del pensiero filosofico, condotto attraverso l’ampio spettro dell’osservazione antropologica, sociologica e – per alcuni – dell’agire etico.
Fabrizio Pezzani, nel suo testo Il futuro nelle radici, edito da Egea – una godibilissima lettura che restituisce l’idea di un sano conservatorismo ideale e valoriale – analizza la realtà contemporanea partendo dall’assunto che una confusione tra mezzi e fini sia, sciaguratamente, in atto. Il fine deve essere il valore umano e l’impresa il mezzo, non il contrario. Tale prospettiva spalanca il dibattito sulla controversa questione della Responsabilità sociale d’impresa (Rsi). É possibile che soggetti imprenditoriali, la cui sola preoccupazione dovrebbe essere quella di fare profitto, possano decidere, in assenza di leggi che glielo impongano, di creare valore aggiunto restituendo quote degli utili prodotti alle comunità di prossimità con le quali interagiscono, sotto forma di servizi e prestazioni volte a conseguire il benessere collettivo. Di Responsabilità sociale d’impresa si cominciò a parlare ai primi degli anni Cinquanta del secolo scorso grazie all’economista statunitense Howard Bowen. Alla metà degli anni Ottanta la Responsabilità sociale d’impresa viene compiutamente teorizzata da Robert Edward Freeman nel suo saggio Strategic Management: a Stakeholder Approach del 1984. Tuttavia, già nel XVIII secolo, nella Napoli dei Borbone, troviamo disciplinato il primo Codice etico connesso alla vita dell’impresa.
È il caso della Real Colonia di San Leucio, borgo non lontano da Caserta, dove Ferdinando IV di Borbone avviò la produzione della seta. L’organizzazione industriale era stata strutturata sulla base del Codice Leuciano del 1789. Un documento che andrebbe studiato in tutte le università per il suo portato rivoluzionario in fatto di attenzione agli interessi degli Stakeholders ante-litteram, così come andrebbe studiato il pensiero di Antonio Genovesi, contemporaneo di Adam Smith e padre dell’economia civile, professore nel 1754 della prima cattedra, al mondo, di economia. Genovesi ribalta la teoria hobbesiana dell’homo homini lupus affermando i concetti di reciprocità, fraternità e solidarietà riformulati nell’espressione homo homini natura amicus. Ne scriviamo perché Pezzani, più volte, fa riferimento al pensiero di Gianbattista Vico del quale Genovesi fu attento studioso. L’autore, attraverso una rivisitazione della storia economica italiana dal dopoguerra a oggi, espone le ragioni della critica al neo-liberismo, strumento di una finanziarizzazione dell’economia globale che trionfa grazie agli effetti dopanti della speculazione monetaria. Impossibile non cogliere l’assonanza con le tesi di Giulio Tremonti, in particolare quelle centrate sulla denuncia del “mercatismo”, versione degenerata del liberismo. La visione economica ispirata da Pezzani non può prescindere dal benessere sociale di una comunità.
Parimenti, l’autore attribuisce ai valori portanti della società, connessi alla centralità della famiglia, la funzione essenziale di argine alla spregiudicata accumulazione della ricchezza individuale, realizzata al di fuori o in dispregio delle meccaniche dell’economia reale. Già, l’economia reale. Questo è uno dei punti di snodo del ragionamento di Pezzani. Quando, nel 1971, gli Stati Uniti abbandonano il Golden exchange standard, svincolando la moneta dalle riserve auree, si innesca la spirale che condurrà alla speculazione monetaria, alle bolle che agitano i mercati e alla deregolamentazione del sistema bancario che cancella la distinzione tra banche d’affari e banche commerciali. Accanto a questo vi è un altro snodo cruciale che emerge con forza dal testo: la biforcazione concettuale tra economia intesa come scienza sociale e come scienza esatta. Per l’autore l’economia è, incontrovertibilmente, da ricomprendere nella prima categoria poiché si fonda sui comportamenti umani i quali, a loro volta, non rispondono a leggi dotate dei crismi dell’immutabilità, costanza, coerenza logica e certezza nel tempo.
Al contrario, l’agire umano si connota per la sua mutevolezza in base a fattori contingenti. L’economia, in quanto scienza sociale, si avvale di modelli predittivi, elaborazioni statistiche, simulazioni e previsioni che scaturiscono dall’osservazione dei fenomeni passati e presenti ma non dispone di certezze su cui fondarsi. La certezza è solo nell’economia reale e questa è ancorata alle persone e al territorio sul quale esse vivono. La storia economica italiana è ricca di esempi di imprese a conduzione familiare che incarnano il modello di economia reale. L’autore propone al lettore il modello della Barilla. Un valido caso di studio, ricco di spunti di riflessione. Un tempo, prima di Basilea I-I-III, le imprese dialogavano con le banche del territorio che si proponevano come partner nei progetti di crescita e sviluppo. Chiaro appare il richiamo nel testo all’importanza delle banche di credito cooperativo (Bcc) nel tessuto socio-produttivo.
Altrettanto interessante è la notazione sulla differenza dello sviluppo del settore primario nel periodo post bellico al Nord e nel Meridione. Vero è che al Sud il perdurare del latifondo abbia sostenuto uno status quo ingessato, che nel tempo ha alimentato la propensione alla rendita fondiaria e immobiliare ai danni dello sviluppo di un forte spirito imprenditoriale e cooperativo. Nondimeno, la differenziazione rilevata può estendersi ai settori economici del secondario e terziario. Ciò spiega il perché, nel Mezzogiorno d’Italia, non sia cresciuta una borghesia illuminata ma sia rimasta egemone, nonostante il cambiamento radicale dell’architettura istituzionale con la nascita dello Stato unitario, una borghesia parassitaria, trascinatasi fino ai giorni nostri, totalmente refrattaria ad assumere su di sé il rischio dell’intrapresa produttiva.
Una mirabile eccezione è stata impersonata dalle produzioni artigianali, tramandatesi nell’avvicendamento generazionale, delle raffinate manifatture legate alla presenza della monarchia e alla centralità europea di Napoli capitale. Il loro know-how, ancora oggi, costituisce la base manifatturiera di specifici distretti produttivi. È il caso della lavorazione artigianale del corallo e del cammeo di Torre del Greco, delle ceramiche di Capodimonte, delle maioliche, della sartoria e del calzaturiero. La pandemia ha evidenziato la fragilità di un sistema economico globalizzato in cui la delocalizzazione della produzione, scelta per contenere il costo della manodopera, della tassazione e degli oneri derivanti da una legislazione attenta alla sicurezza e al benessere dei lavoratori e dell’ambiente, ha reso intere economie nazionali dipendenti da altre per l’approvvigionamento. Lo sviluppo tecnologico spinto e la trasformazione del sapere tecnico in valore positivo assoluto a scapito dell’umana emotività hanno manifestato i loro limiti.
Il salto di qualità nella costruzione del nostro futuro economico e sociale, che Pezzani magistralmente individua, sta nella riscoperta di una dimensione spirituale entro la quale l’elemento vincente della speranza gioca la sua parte. Ponendosi in sintonia con il pensiero di Ernst Bloch, di cui cita un passo tratto da Il Principio Speranza, Pezzani scrive: “È fondamentale provare a ritrovare il principio di speranza come fattore e sentimento essenziale per volgersi al futuro”. Una risposta forte agli idolatri del Dio Progresso. Per l’autore è giunto il momento che ogni individuo di questo tempo storico cominci a porsi le giuste domande. Il progresso è lo strumento attraverso cui conseguire una migliore qualità della vita per l’intera comunità o il fine ultimo in quanto tale? Qual è il prezzo sociale tollerabile in nome del progresso? Quale, dunque, la ricetta possibile per cambiare le cose? “Insomma è importante fare politiche di sviluppo che siano in grado di fondere le necessità dell’economia con un approccio atto a far maturare il senso creativo e imprenditoriale che è nell’animo del nostro popolo. Infine, va sottolineato, come la crisi economica che stiamo vivendo abbia una componente negativa che la rende ancora più difficile da affrontare e risolvere, legata all’assenza di quella speranza che nel secondo dopoguerra ha guidato le precedenti generazioni in un compito di ricostruzione sociale. L’importante è imparare a sperare”. Lo sostiene Pezzani.
(*) Il futuro nelle radici di Fabrizio Pezzani, Egea, 89 pagine, euro 14
(**) Fabrizio Pezzani è professore ordinario di Economia Aziendale presso l’Università Bocconi e distinguished professor presso la Sda Bocconi School of Management. È autore di contributi importanti sia a livello nazionale che internazionale sui temi dell’economia aziendale italiana
Aggiornato il 07 marzo 2022 alle ore 10:49