“Marisa la Civetta”: sesso e libertà negli anni Cinquanta. E oggi?

Nella miseria del migliaio di canali che ho a disposizione sulla mia smart tv, ho pescato un film come “Marisa la Civetta”, di Mauro Bolognini. Alla sceneggiatura ha partecipato Pier Paolo Pasolini (e si vede). Il film è uscito nelle sale nel 1957. La trama è istruttiva. Solo un buontempone può definire questa pellicola come una commedia sempliciotta. Vederla oggi ci permette di comprendere molte cose. Ad esempio, come si è ridotta la libertà rispetto agli anni Cinquanta. O come sono mutati l’amore e il sesso, soprattutto in relazione al “pianeta donna”. Solo un cieco che conduce un altro non vedente recensirebbe il film dicendo “oggi le donne sono più libere”.

Cerchiamo di leggere la trama: Marisa (una procacissima Marisa Allasio) vive a Civitavecchia. Una Civitavecchia meravigliosa: né città né paese, con una pazzesca via di fuga, il porto, che allora equivaleva a una Cape Canaveral, tanto poteva metterti in contatto con “extraterrestri” siciliani, sardi o genovesi. La stazione ferroviaria è un altro “hub” decisivo della vita di Marisa, orfana giovanissima ma già in età di marito (allora ci si sposava presto. Oggi si convola a nozze alla fine dell’età fertile e senza che il giudizio, a trenta o quarant’anni, sia migliore di quello dei ventenni degli anni Cinquanta).

Marisa è la venditrice di panini, gelati e bibite alla stazione di Civitavecchia: adottata dai ferrovieri, ha una stanza tutta sua nello scalo ferroviario e fa guadagnare bene il padrone del bar, perché ci sa fare. Ha un aiutante di una decina di anni: si vede che è già furbo come l’aglio, che conosce la vita come un uomo fatto, forse perché è anche lui un orfano. Il ragazzino non ha nome di battesimo (tutti lo chiamano Fumetto): non va a scuola, vive tra stazione e porto, ha una amichetta di pari età, una specie di Mafalda che forse ha famiglia ma è talmente povera che vive in strada come Fumetto, interpretato dal mostruosamente bravo Giancarlo Zarfati (che ha poi interpretato numerosi altri film). Dio lo ha benedetto in questo film.

A ogni treno che si ferma alla stazione, un uragano di maschi ululanti e cinguettanti chiede a Marisa la grazia di un panino solo per guardarle il seno, generosamente esposto (negli anni Cinquanta le tette non erano tabù: oggi le donne accentuano altre parti del corpo, mentre gli uomini, dopo i jeans, non hanno più un ca..o da esporre). Marisa passa da un flirt all’altro. Magari non concede altro che un bacio, ma la sua è una continua e feroce caccia, per quanto pura, come quella di una farfalla su un fiore. Salta da un pollastro all’altro. I maschi del film (e di quegli anni) sono tutti smaniosi, di quelli che fischiano quando passa una bella donzella, che avvampano come benzina nel motore di una Alfa Romeo. Seguono le donne che incontrano lungo la strada, cercano di dragarle. Ma, dietro tutto questo, non c’è il vizio assurdo di oggi, coi maschi che guardano in basso quando passa una bella donna, mentre quelli allupati e simili a iene non hanno più barriere di coscienza per pensare o fare violenza. Voglio dire che oggi sesso e amore non sono una cosa allegra e bella. Sono una palla, a volte drammatica. Sono un impegno, una cosa da fare, una misura sociale del pene. Da cui drammi e tristizie per quei rari pargoli che nascono, incarcerati da un sistema di contenimento degli istinti degno dello schiavismo egizio.

Marisa concentra la sua ricerca di partner sul figlio del proprietario del bar della stazione dove lei lavora, che finisce militare, poi col vice-capostazione. Infine, flirta col nuovo capostazione, che si innamora di lei, lasciando la donna bella, romana e imborghesita con cui stava. Prima di innamorarsi, però, il nuovo capostazione, impaurito dalla bellezza di Marisa, aveva cercato di mandarla via, iscrivendola a un corso di radiotelegrafista (ma Marisa ruba e butta via la risposta del Ministero, perché vuole restare là dove vive). Poi, un passeggero scende dal treno che arriva da nord. È Renato Salvatori, prototipo del ragazzone di provincia ingenuo, bellone, dai sentimenti santi come una acquasanta.

Il “bel Renato” fa il marinaio sul traghetto Civitavecchia-Palermo. L’agnizione avviene allo sportello del vagone mentre lui scende. Ma i due si lasceranno e si ritroveranno una infinità di volte: Marisa fa quello che vuole coi maschi, li butta giù come birilli di un bowling, li annienta. Ma quelli non ne fanno una tragedia, alla fine. Non c’è dramma in queste storie di persone povere e nemmeno troppo nascoste. Billy Wilder diceva nel 1945 che “gli ottimisti stanno nei lager. I pessimisti sono i milionari di Hollywood”. Aveva ragione. Il disegno celeste alla fine premia sempre Lazzaro, e colpisce sempre i ricchi (di se stessi, delle proprie convinzioni e paure, del proprio egoismo). Così, nell’ultima scena, Renato Salvatori in dieci minuti porta via Marisa dalla sua stazione. Con lei va all’Isola del Giglio, dove lui vive, per cominciare una nuova vita insieme. Non sanno cosa sarà, ma sanno che sono loro a comandare la nave su cui navigano. Sul molo restano Fumetto e la sua amichetta bambina. Liberi come l’acqua.

E noi? Noi siamo stati ristrutturati come l’Ilva di Bagnoli o l’Italsider di Cornigliano (un film pasoliniano impone riflessioni pasoliniane), purificati da donazioni ai poveri del mondo e dalla diminuita quantità di relazioni con gli altri, quali essi siano. Noi che andiamo a pu..ane (pardon, dalle escort) ancora in tre milioni, a 64 anni dalla Legge Merlin, dovremmo forse ripensare a cambiare la vita per davvero, non con una rivolta politica, ma con una rivoluzione delle coscienze, con un ritorno all’amore e alla libertà.

Aggiornato il 02 marzo 2022 alle ore 10:26