Gianni Celati, scrittore nascosto e persona manifesta

Sento già la mancanza di Gianni Celati, mio professore e caro amico che ha cercato di aiutarmi quando, condannato dalla mia miserrima condizione studentile, emigrato culturale dalla Liguria a Bologna, finii in una Casa dello Studente che, se oggi è una serie di piccole suite, allora era una specie di gulag o di casa collettiva come quella del dottor Zivago subito dopo la vittoria dei bolscevichi.

Vivendo alla Casa dello studente inevitabilmente eri condannato a consumare orridi pasti alla mensa universitaria (non parlatemi della cucina emiliana, sòccia), la cui sola alternativa erano i fornelletti elettrici su cui ci si metteva a bollire una manata di spaghetti, che mal cuocendo diventavano marmellata. Era la vita degli studenti meno abbienti, e io – che ero magro come la fame – finii per pagare cara la denutrizione. Con la mia compagna (I.F.) cominciammo a vivere da nomadi urbani, passando da una mansarda da amanti con letto singolo e senza riscaldamento ad appartamenti dove la corrente non si pagava, perché sui contatori di allora si poteva infilare una pellicola fotografica che teneva ferma la rotella che computava i consumi. Si stava senza una lira, perennemente in fuga e in cerca di scatolette di tonno. Cercavo di raggranellare qualcosa facendo il lavapiatti, mentre leggevo Friedrich Nietzsche e Roland Barthes (ero iscritto a Filosofia). Poi capitai al Dams e mi iscrissi al corso di inglese tenuto da Gianni Celati, che nel 1977 era incentrato sulla “Alice” di Lewis Carroll.

Fu una folgorazione reciproca. Da quel corso sarebbe nato un libro collettivo: una sfida per la mia vanità da scrittore ipotetico. Passai un giorno a scrivere appunti per il libro collettivo su “Alice” di Lewis Carroll, nella stanza che condividevo con Roberto, un ragazzo del Polesine. Erano anni in cui il comunismo ortodosso penetrava ovunque, anche se nella Bologna del 1977 in realtà il nemico degli universitari era il Partico Comunista italiano, capo indiscusso della città. Ero impressionato dal fatto che alle 19,30 di ogni sera, come se il sindaco Renato Zangheri desse uno squillo di tromba via smartphone, tutti i commercianti uscissero fuori dal negozio per tirare giù la saracinesca, anche se dentro avevano la regina Elisabetta II, desiderosa di acquistare una collana di smeraldi.

C’era Radio Alice, Bifo scriveva cose censurate e occultate ancora oggi (non dai liberali), che cioè il movimento di Bologna 1977 era contro la politica dominante e quella falsamente all’opposizione, perché era un movimento di esclusi e di non-garantiti, composto da studenti, lavoratori precari e quelli che oggi sono la Caienna delle partite Iva, in una nazione catto-com o catto-tradizionalista che comunque si  ingozza la laringe esaltando tutto il bene che fa ai protetti delle varie chiese e partiti, dimenticando che ci sono lavoratori non-garantiti che pagano l’Iva come se fosse l’oro di Brenno, senza ricavarne né pensione né mutua, né cassa integrazione e nemmeno un Grazie.

Bologna era – ed è – una città grassa e impellicciata, dove però vivevano studenti arrivati da ogni parte d’Italia, alcuni “garantiti” dalla paghetta e dall’appartamento pagato da papà, altri che invece vivevano – e vivono – in un’altra città, invisibile, stracciona e picaresca. Leggete Lazarillo da Tormes, se volete capire l’ascendenza dei libri di Gianni Celati. Quanto a una narrazione di viaggio come “Avventure in Africa” e ai docu-film accorati sulle case abbandonate lungo le rive del Po o lungo la via Emilia, c’è in questi un lento oscillare tra realismo e l’impressionismo sfumato di un William Turner o di un Claude Debussy. Gianni Celati diceva che il movimento studentesco di Bologna ’77 prendeva il meglio e rigettava il peggio (le Brigate Rosse e affini). Le Br erano dappertutto, ci provavano a fare proseliti, ma per fortuna quasi sempre fallirono.

Celati invece ci invitava a guardare al movimento delle università americane negli anni prima del ’68, che se ne strafotteva della conquista del potere ma cercava uno stile di vita alternativo. E pazienza se lo stile di vita che trovarono era hippy: musica, orientalismo, marijuana (ma non eroina e cocaina, come nell’Italia e nel mondo degli anni ’70), sesso in dosi generose, vita nei boschi in stile Henry David Thoreau, avventure esotiche tipo Arthur Rimbaud. Almeno si divertivano e sbagliavano da soli o quasi. A Bologna nel ’77 c’era un poco di America anni ’60, a parte chi aderiva ai mini-partiti della gauche più ortodossa che poi, con un convegno pieno di stupidi capetti, affossarono tutto.

Celati fu colpito dalle cose che avevo scritto: le lesse al seminario, io ero in Liguria in quel giorno ma mi dissero tutto. Al corso partecipava anche Roberto Freak Antoni, leader e fondatore degli Skiantos, fissato coi Beatles in maniera indecente per me (Celati voleva farmi suonare con quella band ma io adoravo Miles Davis, Coltrane, i Talking Heads, Frank Zappa o Stevie Wonder. Poi, c’era Nicoletta Billi, che gestì l’ufficio stampa di Gaumont Italia prima di diventare producer di cinema e responsabile della promozione di moltissimi film. C’erano anche Leonardo Giuliano, oggi produttore cinematografico, lo scrittore Enrico Palandri e altri 20 ragazzi, più o meno.

Nei miei appunti avevo scritto cose stravaganti, a dirle oggi. Nella recensione al libro, edito nel 1978 col titolo di Alice Disambientata, il critico Alfredo Giuliani su La Repubblica del 20 maggio 1978 non ci azzeccò molto: scrisse che le nostre erano “balle cinesi” (si riferiva a una mia frase), e “snobismo di gruppo”. Non poteva capire il punk di quei tempi che purtroppo si insinuò nel testo con qualche battuta dei più rockettari. Però il resto era buono. Di seguito raccolgo alcuni estratti di quanto Celati trascrisse in “Alice disambientata” dai miei appunti e interventi a voce. Si tratta di otto argomenti che sintetizzano la vita di Celati e l’atmosfera di quei mesi e di quella università:

- primo “non esiste una letteratura rivoluzionaria”;

- secondo, non si possono opporre “triangoli rivoluzionari” a quelli democristiano-freudiani di padre-madre-figlio;

- terzo “genitori e insegnanti si comportano come programmatori di computer: introducono nei loro dispositivi (i bambini) informazioni formalizzate in modo irreversibile. (I bambini vengono programmati), ma senza che possano rendersene conto. A rileggere queste parole oggi mi sembra una profezia che descrive la società socialdemocratica perfetta;

- quarto “se non può esistere una letteratura rivoluzionaria, la parola deve superare se stessa in altro modo: i testi di Carroll o Kafka o Fourier sono come dei manuali si sopravvivenza per gli individui. (…) L’adulto non può capire Alice: è troppo strutturato, programmato” perché ha vissuto le pene dei “cautionary tales” (le fiabe educative di tipo minaccioso, ma anche i film, i tg, basati sullo schema se ti ficchi le dita nel naso, allora arriva il Grande Sarto con un forbicione e ti taglia un dito della mano);

- quinto “nella letteratura che mira a liberarci, la via d’uscita non viene più imposta all’ingresso ma viene suggerita nel percorso” (ovvero, ogni buon romanziere ti lancia messaggi in codice per vivere meglio);

- sesto “uno degli aspetti dell’uomo che abbiamo alle spalle è la struttura unidimensionale del suo pensiero. Così come l’ordine delle lettere viaggia sul rigo in una sola direzione, allo stesso modo nessuno può sviluppare contemporaneamente due tesi diverse. C’è un modello predeterminato della scrittura e della parola letteraria che ha a che fare con questa unidimensionalità. A questo si potrà ovviare con l’uso di una scrittura collettiva in cui nel medesimo testo coabitino diverse tesi o tendenza… Ma c’è un rischio, fare dell’avanguardia, sostituendo l’individualismo borghese col collettivismo burocratico”. Letto oggi, questo significa che un “gruppo” non può avere il dominio della comunicazione, come avviene col “mainstream” politicamente corretto che ci trascina verso nuove dittature dal volto angelico;

- settimo “si dovrebbero scrivere romanzi in milioni di persone. Con le parole si può giocare, si può anche smettere di giocare. Sicuramente oggi leggere è contro lo scrivere: si legge perché si è espropriati dalla comunicazione, che è in mano a centri di potere”. Anche qui si intravede l’attuale sistema della comunicazione, il web dove c’è tutto e niente. Umberto Eco affermava che l’eccesso di comunicazione è uguale al silenzio. Di questo si dovrebbe parlare. Allora si poteva farlo, anche se poi ti chiudevano l’Università. Io a quel punto aggiungevo che si sarebbe potuto “contrastare i codici con programmi… (perché) un programma è la riduzione di tutti i dati a una serie di elementi semplici”. In effetti abbiamo passato una fase liberale del web, prima della concentrazione dei flussi in pochi vettori, che convogliano ogni idea in un codice da cui non si sfugge. Così tutto si perde, come le case abbandonate nel delta del Po;

- ottavo “uno di noi ha detto che dobbiamo tenere a mente il rapporto tra scrittura e sessualità. Ha steso uno schema e l’ha chiamato “Struttura del libro in traduzione corporea”. Leggere un libro ha a che fare con la sessualità e l’erotismo? Lo schema provocatorio dice: a) acquisto del libro=scelta dell’altro, del partner; b) prefazione del libro=preliminari, eccitazione sessuale; c) introduzione= introduzione del pene; d) lettura del testo, ovvero il piacere del testo di cui parla Roland Barthes=rapporto sessuale; e) fine del testo, acme, colpo di scena=orgasmo. Questo schema va bene in particolare per i romanzi gialli in cui la fine corrisponde alla verità svelata, ma funziona anche per i trattati scientifici, trattatistici (…). Il nostro compagno parla dell’introduzione del libro (idee, notizie) nella mente-vagina del lettore Ficcati bene in testa quello che c’è scritto!

In quei mesi di viaggi notturni su treni ricoperti di neve tra Sestri Levante e Bologna pensavo di scrivere un romanzo. Parlai a Celati del progetto: lui mi presentò a Carlo Ginzburg, persona eccezionale non solo per ciò che scrive e lui mi spedì a Roma da sua madre Natalia. Avevo scritto qualcosa ma avevo troppo materiale da elaborare: storia, arte, politica, orientalismo e frammenti di una storia personale quasi unica. La cosa finì lì. Gianni venne a trovarmi in Liguria un paio di volte. Qualche anno dopo ci incontrammo a Bologna, lui mi invitò a pranzo per ascoltare una mia disavventura, che poi è diventata uno dei racconti di “Narratori delle pianure” (Feltrinelli). Ci risentimmo ancora per un mio romanzo utopico sull’Autociviltà e il suo superamento. Era il 1993, lui ormai si era trasferito in Inghilterra, e mi chiese perché volessi superare il sistema basato sulle auto se non sapevo come (ipotizzavo ironicamente strade sostituite da tapis roulant o da sedili in serie che scorrevano su micro-canali di acqua). Anche oggi sono scettico sulle alternative agli idrocarburi che le conferenze Cop26 hanno (non) proposto. Alla fine, perdemmo i contatti.

Però restarono fili invisibili a collegarci, diversi da quelli di WhatsApp per fortuna. Il suo libro migliore per me è “Finzioni Occidentali” (Einaudi). Non mi sono piaciute molto le recenti narrazioni un poco alla Luigi Pulci, un poco picaresche, un poco alla Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Ma la sua scrittura migliore era lui stesso. Le parole dei libri e le immagini dei suoi film sono solo un complemento.

Aggiornato il 06 gennaio 2022 alle ore 21:44