Santo già

Qualche volta il contagio è qualcosa di meraviglioso. Un sorriso al posto del virus, una canzone per far cambiare subito umore, per una dose di felicità effimera, ma istantanea. Qualche volta le persone anziane sono malinconiche. Guardano l’orizzonte, pensieri imperscrutabili su traguardi tristi e immaginabili. Ma qualche volta, no, sono loro a sollevare il morale dei giovani, disperati perché la ragazza, perché il concorso, perché l’università non dà sbocchi, perché non si sa proprio che fare in questo mondo confuso.

Antonio Morese esercitava questa magia e ora che se n’è andato non vale nemmeno il santo subito: lui lo era anche prima. Il suo nome d’arte era la sua città, Sant’Agata di Puglia. E al quasi concittadino Padre Pio aveva dedicato un’opera. Ma Toni non era un santo noioso, di quelli raffigurati con lo sguardo rapito verso non si sa dove: lui coloriva con arte semplice e limpida le marachelle della brava gente, della sua gente, cioè di tutto il mondo. I tradimenti con il pensiero, i desideri birichini che aiutano a vivere, i battibecchi e la vita di ogni giorno, che lui dipingeva con voce irresistibilmente buffa.

Ha accompagnato molte generazioni, in tutto il mondo e, al suo ingresso, si fermavano rock, techno, rap per scoprire come è bello lu primm’ammore, e poi esagerare, perché lu secondo è cchiù bbello ancora. Per Rai Internazionale aveva scritto e interpretato la sigla della Giostra dei gol, programma di punta. Una canzone bella e trascinante, come sempre: squadra grande, squadra mia, la domenica mi tieni compagnia. Ed era più amato del bomber di punta del momento. Toni una squadra del cuore ce l’aveva, ma quando qualcuno gli rivelava la sua passione per il Milan o il Sassuolo lui gli dimostrava di essere, in uno strano modo-modo, ma fortissimamente sassolese-sassolista, milanese-milanista. Ed era l’unico caso al mondo di camaleonte onesto, non l’ha mai fatto per adulare nessuno: si trasformava per un attimo e gli piaceva condividere le passioni altrui, facendole autenticamente sue.

Snobbava i grandi, ma non l’ha mai fatto per superbia, semplicemente, si divertiva. Come quando, da una finestra di casa sua, indicava agli ospiti che, nel palazzo di fronte, due piani più giù, aveva avuto lo studio quel cantante, quello delle trecce, come si chiama. Ma ora che l’ha raggiunto in cielo, Toni e quello delle trecce staranno ridendo a crepapelle di questo scherzo, con Lucio che gli chiederà se provava a snobbarlo e lui che intonerà dieci ragazze, intrecciandola con Lu maritiello.

Credeva nelle sue canzoni al punto di non trattenere il volto scuro se qualcuno esprimeva perplessità nei confronti di una di queste. E se lo ricordava. E la volta dopo attaccava con quella, proprio con quella. Poi fingeva di essersene accorto tardi “ah, scusa, è quella che non ti piace… ma poi, perché non ti piace? Comunque, i gusti… però, peccato!”. E ripiegava sui suoi evergreen. Toni Santagata è sopravvissuto un anno e mezzo alla morte del figlio Francesco Saverio, ucciso nell’agosto 2020 da una malattia fulminea. Dopo di allora la sua stessa fisionomia è cambiata: capelli bianchi, volto da cui traspariva il senso di colpa assurdo, ma umanissimo di un padre che vive come un’ingiustizia la scomparsa di un figlio di cinquant’anni, e pensa che sarebbe toccato a lui, guardando sgomento la moglie Vanna che non è mai riuscita a farsene una ragione.

Nessuno erigerà mai un monumento a questo eroe dell’umana leggerezza. Ma se Sant’Agata, se ogni Comune pugliese, italiano, planetario, gli intitolasse una strada, come per magia, i passanti sorriderebbero. E nelle orecchie sentirebbero la Zita, in tutte le lingue del mondo.

Aggiornato il 06 dicembre 2021 alle ore 12:03