“Il cinema è morto, scomparirà, resterà di nicchia. I festival saranno gli unici luoghi in cui seguire i film in maniera tradizionale. Non vado in una sala da molti anni. Non ho alcuna nostalgia. Quando sento Steven Spielberg elogiare come si faceva cinema una volta. Per me era terribile, il digitale è così superiore. Le macchine per scrivere le odio rispetto all’elaborazione su un software. Abbiamo tivù di ottima qualità che ci consentono di vedere film a casa. Netflix è vero cinema, una buona alternativa e con lo streaming ha imposto un cambiamento radicale, accelerato dalla pandemia”. Il parere espresso dal celebre regista canadese David Cronenberg, qualche settimana fa in occasione di un’intervista rilasciata al Corriere della sera, può essere considerato magari troppo “netto” ed esagerato, di sicuro è in controtendenza rispetto all’opinione prevalente tra gli addetti ai lavori, soprattutto se consideriamo quelli di casa nostra e non d’Oltreoceano. Radicale o meno che sia, è in atto un cambiamento, che sta modificando sia il modo di fare cinema che quello di fruirne.
Come spesso capita quando sono in corso dei cambiamenti, nel caso in questione spinti principalmente dall’innovazione tecnologica, le resistenze sono le più diverse: i primi a opporsi sono i rappresentanti di quelle categorie che si sentono minacciate “economicamente” da tali innovazioni; ma non trascurabile è anche il ruolo “culturale” (ossia la pretesa di voler plasmare il mondo in base ai propri gusti: il mondo reale s’intende, non quello raffigurato sullo schermo) di registi, attori, sceneggiatori: lo Spielberg che elogia il cinema di una volta o il Nanni Moretti che afferma “faccio film per il cinema, non per Netflix o Amazon”.
Che siano di un tipo o di un altro, gli oppositori invocano spesso la “politica”: sostanzialmente perché metta un freno al cambiamento e tuteli specifiche categorie e/o settori. Nonostante venga ammantata da nobili propositi (la diversità culturale, ad esempio), la politica europea in materia di audiovisivo viene attuata dal nostro Paese con grande zelo, soprattutto in tema di quote di programmazione e di investimento. Su quest’ultimo punto si è concentrato il recente dibattito sul recepimento della direttiva europea sui servizi media audiovisivi, che ha visto Netflix protagonista di una “campagna” per segnalare la disparità di trattamento proprio in materia di obblighi di investimento, imposti per legge a broadcaster e piattaforme. Come se il successo, decretato liberamente dalle scelte dei consumatori, si debba per forza tramutare in una sorta di calamita, che attira il legislatore in cerca di risorse da redistribuire per sostenere l’intero settore.
Si può affermare con una certa sicurezza che viviamo in un’epoca in cui l’offerta culturale è così abbondante come mai è avvenuto nel passato. E questo è successo principalmente grazie all’innovazione tecnologica e alla nascita e crescita di aziende private che operano fuori dal perimetro e dell’intervento pubblico: se lo vogliamo, in qualsiasi momento oggi possiamo ascoltare un brano musicale, guardare un film o una serie, assistere virtualmente a uno spettacolo o visitare un museo. Se pensiamo che questo tipo di “offerta” sia importante per lo sviluppo del capitale umano delle persone e per i suoi effetti sociali, allora solo di questo si dovrebbe occupare il legislatore: che ci sia un’ampia offerta culturale, non di stabilire quali forme d’arte vadano privilegiate o di deciderne le modalità di fruizione.
(*) Direttore editoriale Istituto Bruno Leoni
Aggiornato il 22 novembre 2021 alle ore 15:55