Ho visto alla televisione, di sfuggita, Bruno Vespa con alle spalle la vistosa scritta Mussolini rovinò l’Italia. Sono corso al computer e ho scoperto, su Internet, che il titolo esatto è Perché Mussolini rovinò l’Italia. C’è una bella differenza fra le due frasi. In Italia, su certi giornali e programmi televisivi, l’Informazione, come ho già scritto altrove e come osservò Giovanni Papini nel 1929, somiglia alla famosa Fama virgiliana, che posandosi sui tetti delle case, andava diffondendo notizie mescolando menzogne e verità.
Nell’Ottocento Ludovico di Breme, lo “spadaccino del Conciliatore”, su quella rivista, in sintesi, scriveva: “È soprattutto contro il malcostume di certi giornalisti d’Italia ch’io spargerò amare parole, ferendone qui la sguaiata oltracotanza, o anche la semplice inconsideratezza. Quel privilegio che si arrogano essi di ripararsi coi loro segreti divisamenti sotto l’ammanto cattedratico lo dovremmo tenere in conto di una vera calamità, tanto più perché certi gazzettieri non si limitano a parlar male dell’Italia nei nostri giornali, ma vanno accattando pagine di giornali stranieri perché le loro malelingue ne sparlino pure lì” (è quel che fece un nostro magistrato passato alla politica, il quale un giorno, sparlando di Berlusconi, esclamò: “Io quello lì lo sfascio!”).
E poi ci si meraviglia perché Mussolini nel ’26 fra le sue “leggi fascistissime” limitò (non soppresse) la libertà di stampa. Il relatore disse, fra l’altro, che se uno va diffondendo medicinali nocivi il Governo ha il dovere e il diritto di intervenire (vedi il Coronavirus di oggi). Il punto è questo. Ogni storia va vista nel suo insieme, letta e descritta sine ira et studio, senza odio e veleno, obiettivamente, e giudicata a posteriori, non a priori, cioè in base alla propria ideologia, politica, religiosa, letteraria, artistica e così via. Che Dio abbia dato all’uomo il libero arbitrio o no, se non del tutto in parte, come dice Dante, per quel che riguarda l’uso che noi facciamo della parola, la quale è comunque “Parola di Dio”, questo è un altro discorso e non basterebbe un convegno per discuterne e trarne una conclusione condivisa da tutti (su questo argomento Erasmo e Lutero discordavano fra loro). Le vicende e le parole degli uomini (come dicevano Seneca e Marco Aurelio, per citare due soli nomi), sono tutte interconnesse in una lunga e complessa serie di cause e di effetti, i quali a loro volta diventano cause di altri effetti, e così via.
Dunque, anche il Fascismo (imparino i “maestri” che tutti i movimenti, letterari, artistici o politici, richiedono l’iniziale maiuscola) va visto e giudicato nell’insieme, perciò non si può dire e scrivere “sic et simpliciter”, che “Mussolini rovinò l’Italia”. I nostri giornalisti, o informatori, specialmente quelli della Sinistra, rispettino innanzitutto l’obiettività, si affidino non allo stomaco ma al cervello, e facciano queste riflessioni.
Primo: il Fascismo nacque “in reazione” agli attacchi spietati e sanguinari degli scribi (o scribacchini) e dei farisei, “falsi ed ipocriti”, della Sinistra, dei quali qui dico soltanto questo… la loro patria non era l’Italia, la terra in cui, bene o male, erano nati e cresciuti. “Farèmo come la Russia, come Lenìn faremo!”, andavano gridando per le strade, e chi non salutava col pugno chiuso le loro bandiere rosse, che rubavano il posto al tricolore, era preso a randellate, le quali nacquero prima del manganello fascista.
Secondo: per non parlare dei Romani antichi, in Italia un “duce” non ci fu soltanto nel “becero” Ventennio, perché nel Trecento c’era già stato Cola di Rienzo, che alla fine fu impiccato a testa in giù, affinché il volgo potesse sputargli e schiaffeggiarlo. Uno dei tanti “messia”, anche stranieri, che in tutti i tempi l’Italia ha aspettato, prima e dopo il Ventennio mussoliniano (e che fra parentesi gli ebrei aspettano ancora, e ciononostante la Chiesa intravede accenni all’avvento di Cristo e alla Madonna in alcuni passi dell’Antico Testamento, solo perché vengono nominati un messia e una donna che schiaccerà coi suoi piedi il serpente che tentò Eva).
Terzo: il Papa di allora chiamò Benito Musolini l’Uomo della Provvidenza, e Benedetto Croce scrisse “il Fascismo, mal noto ai più, è come un popolano, impetuoso ma deciso, generoso e amante della patria”. E nel 1907 definì il socialismo “una delle tante sétte contro la patria ed il nazionalismo”, la “malattia morale”, la “fabbrica del vuoto”, “un accidente, un crimine, un violento temporale che distrugge e non crea niente”. E ancora: “Il Fascismo non è un’infatuazione, non è un giochetto, ha le lodi e il consenso di tutta la nazione, ha sciolto sino ad ora molti nodi, è l’amore del popolo, l’amore della patria italiana, una ricchezza per lo Stato, è il senso dell’onore, ha debellato l’antica fiacchezza, ha risolto molti mali” (sono un centinaio le cose buone fatte dal Fascismo: perché parlare solo dei danni, quando non c’è Governo al mondo che non ne abbia compiuti e non ne compia?). E poi anche i Romani in momenti critici eleggevano un dittatore. Quando i fascisti andarono al potere, Giovanni Giolitti disse: “La nostra patria stava per cadere, l’ha tratta via dal fosso Mussolini”.
Quarto: dal crollo del Fascismo nacque in Italia la democrazia, cioè il potere del popolo, un bene che senza l’avvento del Fascismo, con la sua conseguente caduta, non sarebbe nato. Quanti grandi condottieri nella Storia sono alla fine caduti, uccisi addirittura, come Cesare, pugnalato, Napoleone, avvelenato, per non parlare dei papi! Dunque diciamo pure, come sosteneva anche Carlo Marx, che spesso da un male nasce un bene, e che il male è “sacro e necessario” per l’evoluzione e il progresso dell’uomo. “Atene cadde affinché il mondo intero potesse conoscere Platone”, “Ventimila persone sono dovute morire a Pompei in una notte affinché i posteri un giorno potessero sapere come vivevano”: così scrisse Johann Wolfgang von Goethe nel suo Viaggio in Italia. E gli Ebrei hanno potuto avere finalmente una patria (la vera terra promessa nel loro continuo peregrinare) in virtù dell’olocausto: piaccia o non piaccia questa è la verità, così procede la storia dell’uomo, che, come diceva Vico, è la storia di Dio nella sua veste umana. “Parole non ci appulcro”, come diceva Dante: qui, in un articolo, non posso dire di più.
Il libro di Bruno Vespa (che ho conosciuto e con cui ho parlato in uno dei tanti convegni culturali), insieme ad altri suoi scritti, fra i quali I voltagabbana) è un contributo all’odio della Sinistra, come questo mio e altri che ho scritto e pubblicato (non so se Vespa abbia letto Il Fascismo in presa diretta. Come lo vedevano gl’Italiani), ma non si può non parlarne, non si può assoggettarsi ai dettami della Sinistra, è lei che provoca e ha sempre provocato questi discorsi, e io sento il dovere di dire ciò che ho visto e sentito, coi miei occhi e con le mie orecchie, anche perché, all’età di 96 anni, sono rimasto se non l’ultimo uno dei pochissimi superstiti del Ventennio, che ho vissuto interamente, dal principio alla fine e di cui possiedo molte testimonianze, fra libri e raccolte di giornali che ho ereditato da mio padre.
“La memoria storica non si tocca”, gridano i “sepolcri imbiancati”. E allora, portiamocela pure dietro sino alla fine, perché non basta un “drago” a salvare l’Italia, ma spieghiamola bene questa storia. Fino al ’36 Mussolini protesse gli ebrei, ebbe persino un’amante ebrea, Margherita Sarfatti, mentre la Chiesa li perseguitò per secoli, massacrandoli nelle crociate al grido “Dio lo vuole!”. Li protesse dalle prime persecuzioni razziste. Nel ’38, legato com’era, necessariamente (per volere divino) a Adolf Hitler, applicò le leggi razziali, approvate da tutti gl’intellettuali, tranne Benedetto Croce, che era o che si diede ammalato, ma soprattutto firmate dal Re, che era il capo supremo dello Stato. Io le ho vissute queste vicende, ero un ragazzo, mio padre, che aveva combattuto nella Grande Guerra come tenente degli Arditi, di fronte allo sfascio del nostro “Bel Paese”, come tutti i reduci, passò al Fascismo col grado di capomanipolo e partecipò alla “marcia su Roma”. Quando con tutta la famiglia fu trasferito nella Capitale cercò una casa nei pressi di Villa Torlonia e la trovò in via Belluno, a pochi passi da lì, e io ogni mattina, nel recarmi a scuola, dalla sommità della strada in salita che portava alla villa, vedevo il volto del Duce mentre cavalcava nel parco.
“Sorge il sole, canta il gallo, Mussolini monta a cavallo”, scriveva Curzio Malaparte. Nel ’36, dopo avere ascoltato, vestito da balilla e inquadrato nel mio plotone, sotto il balcone di Palazzo Venezia, dalla viva voce del Duce la proclamazione dell’Impero, scrissi alcuni versi su quell’evento, che mio padre consegnò personalmente al Duce, che volle conoscermi, mi strinse la mano e mi abbracciò. Di Mussolini, sempre nel ’36, ho conosciuto il figlio Romano, che aveva un anno meno di me, perché lo vedevo spesso ai giardinetti vicini dove mia madre portava a giocare i miei fratelli più piccoli.
Lo rividi a Roma agli inizi della mia collaborazione ai programmi della Rai, quando andava affermandosi come pianista e compositore e componevo anch’io canzoni su versi scritti da me. Un giorno mi disse che suo padre sino all’ultimo non sapeva nulla dei forni crematori in cui i tedeschi mettevano gli ebrei.
Aggiornato il 19 novembre 2021 alle ore 17:59