Un discorso del 1904 ancora attuale

Torna in libreria i cimiteri dei vivi di Filippo Turati

Il carcere è un tema scomodo che viene normalmente eluso, a meno che non intervenga qualche evento sensazionale a riaprire la discussione sulle condizioni carcerarie, che in Italia permangono, come sostiene Guido Neppi Modona, uno dei massimi esperti in materia, “pressoché immutate dall’Unità d’Italia sino ai nostri tempi, malgrado i trapassi istituzionali e di regime politico”. E fu per la prima volta Filippo Turati a sollevare con vigore il velo su questo “mondo misterioso ignorato da tutti”, in un suo famoso discorso pronunciato nel 1904 alla Camera dei deputati, adesso riproposto dalla casa editrice il Papavero – nella collana Orme della libertà fondata e diretta da Pier Ernesto Irmici – con il medesimo titolo dato dallo stesso Turati alla prima edizione: I cimiteri dei vivi. Questa nuova edizione (97 pagine, 14 euro), ampiamente commentata da una prefazione di Stefania Craxi, un’introduzione di Giuseppe Gargani e una postfazione di Giuseppe Cricenti, arriva opportunamente dopo che i recenti drammatici fatti di Santa Maria Capua Vetere hanno riacceso il problema carcerario, ripresentando l’urgente necessità di interventi del Parlamento e del Governo per riformare il nostro sistema penitenziario.

Può apparire incredibile, eppure, dopo quasi 120 anni, le parole di Turati, che ispirarono il famoso discorso (Bisogna aver visto, 1948) di Piero Calamandrei e furono importanti riferimento nella formulazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione, potrebbero essere riferite quasi inalterate alla situazione presente. Quando Turati parlò nell’Aula di Montecitorio era entrato già da 14 anni in vigore il Codice penale Zanardelli, che aveva sostituito quello del Regno di Sardegna rimasto in vigore per i primi trent’anni dell’Italia unita, ma le condizioni delle persone private della libertà personale rimanevano nella sostanza immutate, nonostante l’introduzione di regolamenti più attenti alle condizioni del carcerato, che, però, come si legge ne’ I cimiteri dei vivi, restavano sostanzialmente inapplicati e la pena continuava a consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e la percentuale della recidiva era sempre altissima.

Per Turati il carcere doveva essere strumento di rieducazione, di riacquisizione di stima di sé, di fiducia negli altri e nelle istituzioni. Il rispetto della dignità della persona era per Turati essenziale per spegnere tensioni e violenze, per motivare il personale di custodia, incidere positivamente sulla recidiva e facilitare il reinserimento nella società civile. E la condanna di Turati nei confronti di un sistema lontanissimo da quella prospettiva è durissima e senza attenuanti: “Le carceri italiane sono la maggior vergogna del nostro Paese. E non è scritto in alcun libro del destino che le nostre carceri, i nostri riformatori debbano essere luoghi di tortura e dei semenzai di criminalità”. I cimiteri dei vivi è un testo che racchiude parole, come ebbe a scrivere Piero Calamandrei, che “nascono dall’indignazione di cogliere lo Stato e la società in un delitto di lesa umanità”, purtroppo ancora attuali.

I cimiteri dei vivi di Filippo Turati, Il Papavero 2021, 97 pagine, 14 euro

Aggiornato il 26 ottobre 2021 alle ore 13:49