Poco dopo la mezzanotte della fredda domenica del 4 novembre 1956 prendeva l’avvio l’Operazione “Tromba d’aria”. Il Maresciallo dell’Unione Sovietica, Ivan Konev, lo stesso che anni prima, durante la guerra, partecipò alla gara per la presa di Berlino con il suo compagno e rivale, Georgij Zukov, aveva lanciato l’ordine con la parola in codice “Tuono”.
Erano state radunate intorno alla capitale Budapest ben 10 divisioni di fanteria meccanizzata, per un totale di circa 150.000 uomini, 2.500 carri armati e uno straordinario supporto aereo, quest’ultimo espressamente richiesto da Nikita Kruscev in persona al fine di piegare definitivamente la tracotanza degli insorti contro il padrone sovietico. I confini con l’Austria da diverse ore erano stati chiusi e presidiati da più di 20.000 militari, paventando un eventuale intervento delle truppe occidentali. I telefoni dei comandi centrali e di quelli distaccati suonavano l’overture dell’orchestra di una guerra dimenticata che di lì a poco avrebbe inarcato note di morte e devastazione.
Alle tre del mattino i primi carri entravano a Pest eseguendo puntualmente il piano di tagliare in due la città da nord a sud lungo il Danubio. Poco dopo le quattro del mattino i primi sibili, i primi schianti, i primi boati, altre esplosioni, altri morti. I soldati ungheresi erano quasi tutti detenuti e disarmati; l’unica vera resistenza fu quella messa in atto dai civili armati alla bene e meglio, con bombe molotov e armi leggere, del tutto inefficaci contro le pesanti testuggini corazzate dei modernissimi carri T-55 sovietici. La guerra era oramai stata dichiarata de facto e stava per concludersi con l’Ungheria richiamata all’ordine, trascinata per i capelli nella galassia dei Paesi del Patto di Varsavia. Ma come si era arrivati a tanto? Perché le forze sovietiche intervennero con tanta ferocia contro un popolo inizialmente inerme? Perché furono i civili a doversi difendere? Perché l’Ungheria rimase sola? Quali furono le conseguenze di quei drammatici fatti?
Lo spazio è decisamente breve, ma si tenterà ugualmente di delineare i contorni di una delle più importanti vicende della storia europea contemporanea affinché faccia saldamente da monito ed esempio per il presente e per il futuro. Tutto ebbe inizio a seguito delle giornate di Poznan in Polonia nel giungo del 1956. In febbraio, Nikita Kruscev tenne dinanzi al XX Congresso il suo famoso rapporto, originariamente segreto, ma poi trasmesso a ripetizione da Radio Free Europe, sui crimini stalinisti, con cui si intraprendeva quel lungo e tortuoso cammino di destalinizzazione del blocco sovietico, con un tentativo non poco evidente di “kruscevizzare” il Patto di Varsavia. I cittadini polacchi del polo industriale di Poznan esplosero il 28 giugno 1956 in audaci rivolte dalle quali sgorgarono fiumi di sangue, più di 100 morti fra gli insorti, a seguito dell’intervento sovietico comandato dal Generale Konstantin Rokossovsky.
Il riabilitato Wladyslaw Gomulka, dapprima caduto in disgrazia nel 1951, venne insediato con il placet sovietico al vertice del potere occupando la carica di segretario del Partito Comunista polacco. Gomulka fu costretto a far rimanere la Polonia all’interno del blocco sovietico, ma riuscì a ottenere da parte di Mosca il riconoscimento dell’autonomia polacca nella forma di un “socialismo nazionale”, se non proprio come quello di matrice indipendentista di Tito in Jugoslavia, quanto meno sulla scia autonomistica dello stesso. L’Ungheria era governata fin dagli anni Quaranta dallo stalinista ortodosso Matyas Rakosi il cui braccio operativo era Gabor Peter, capo dell’Avo, la polizia politica ungherese. Appartenente all’efficiente meccanismo di persecuzione era lo spietato Gyula Prinz ritenuto il personale e materiale torturatore di più di 25.000 individui.
Nel Natale del 1948 venne arrestato e torturato il Cardinale Josef Mindszenty nell’ambito dell’abolizione di ogni opposizione politica di cui la Chiesa cattolica rappresentava un grosso e decisivo supporto. Rakosi, da fedele uomo di Stalin, applicò di quest’ultimo anche i mezzi ed i sistemi: dal 1950 al 1953 si calcola che furono sottoposti a processo 1.300.000 persone, di cui almeno 50.000 furono condannate senza neanche un processo nel senso formale. Nelle numerose ondate di repressione fu colpito perfino Laszlo Rajk che era stato per anni l’architetto dello stato di polizia in Ungheria, colui di cui Rakosi si era servito negli anni per consolidare la sua macchina repressiva e rinsaldare il suo potere.
Dal 1948 Rakosi ed il suo braccio destro, Ernò Gerò, applicarono i metodi di collettivizzazione che Stalin aveva applicato negli anni ’30, distruggendo totalmente l’economia agricola dell’intero Paese. Dopo la morte di Stalin, nel marzo del 1953, Rakosi, in quanto suo seguace, fu vittima della destalinizzazione e fu estromesso da ogni carica politica e istituzionale, anche all’interno del Partito Comunista ungherese. Il suo posto fu preso da Imre Nagy che promise un nuovo corso nell’economia e di puntare verso linee di governo maggiormente democratiche.
Furono rilasciati i detenuti politici; furono chiusi molti campi di prigionia; cessò la persecuzione di stampo prettamente stalinista nei confronti dei kulaki. Nagy ottenne in principio il pieno appoggio dei dirigenti dell’Urss. Tuttavia, i dissapori e le vedute divergenti fra Rakosi e Nagy erano così frequenti che lo stesso Kruscev era stato più volte chiamato a dirimerne le controversie interne. Presto anche lo stesso Nagy venne visto in cattiva luce da Mosca per le sue tendenze eccessivamente riformatrici.
Nagy, primo ministro dal 1953 al 1955, venne così sostituito, sempre per ordine di Mosca, da András Hegedus molto più vicino alla linea ideologica e politica del Cremlino. La situazione precipitò fin quando 100.000 persone, nella ventosa giornata del 6 ottobre 1956, parteciparono al funerale dell’odiato Rajk nonostante questi fosse stato per anni lo strumento di Rakosi, a testimonianza del fatto che chiunque fosse stato colpito dal terrore, nonostante il suo passato, era degno di essere rispettato, e che il terrore era arrivato a tal punto da colpire perfino i suoi stessi ideatori e solerti esecutori. Tutto era pronto. La pressione sociale era così alta che una rivoluzione sarebbe stata l’unica ineluttabile valvola di sfogo.
Aggiornato il 26 ottobre 2021 alle ore 10:00