La maleducazione istituzionale della Festa del Cinema di Roma

Al netto della consueta maleducazione istituzionale, che ormai lo caratterizza e che sicuramente il buon Walter Veltroni deprecherebbe, anche quest’anno la Festa del cinema di Roma ha fatto quella che in romanesco si chiamerebbe “la propria porca figura”. Sciogliamo subito la premessa: in uno dei film più attesi, I fratelli De Filippo di Sergio Rubini, qualche genio fa la pensata sabato scorso di anticipare di 30 minuti l’inizio della proiezione “perché si era creato un buco”. Naturalmente nessuno viene avvisato o quasi. E le conseguenze si sono tradotte nelle solite bestemmie tragicomiche di repertorio. Magari potevano organizzare un intermezzo tipo il noto intervallo con le pecore o al limite una partita de zecchinetta. Ma invece è andata così. Per il resto, però questa Festa di cui nessuno sente il bisogno di conoscere il vincitore – appunto perché di festa si tratta e non di festival – non ha deluso più di tanto. Anzi. Si è anche visto un notevole super filmone hollywoodiano, quello di Zhang Yimou, One second, che descrive molto bene che Paradiso in terra aveva allestito nei primi anni Sessanta Mao Tse-tung, tra campi di rieducazione e di concentramento veri e propri. Questo per ricordare ai giovani di ieri che i loro entusiasmi politici non furono meno demenziali di quelli dei grillini di oggi. I film italiani, in compenso, sono stati tutti o quasi da dimenticare tranne quello di Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto, dal titolo tanto ripugnante quanto invece il contenuto interessante: E noi come stronzi rimanemmo a guardare.

Di Anni da cane abbiamo già parlato negativamente per tutte le tematiche politically correct in cui affoga e lo stesso si potrebbe dire del francese La cruisade, cioè la crociata ecologica dei bambini. Il film di Pif, invece, per una volta entra nelle profondità delle angosce esistenziali odierne: e cioè nella tragedia del modo di vivere governato dagli algoritmi. E la vicenda immaginata, e immaginaria – ma futuribile – che viene delineata mette i brividi: un mondo di disoccupati ridotti a fare i bikers e ad innamorarsi di ologrammi offerti a pagamento da una specie di multinazionale a metà tra Facebook e Uber con sede a Mumbai. Una sede dove chi lavora proiettando il proprio ologramma a pagamento in tutto il mondo vive quasi in uno stato di reclusione.

Cosa manca allora a questa Festa del cinema per decollare verso i festival come Cannes e Venezia? Per dirla parafrasando la politica il “quid” che manca è quello che solo il buon Veltroni poteva incarnare: un misto di amore per la propria creatura e di elasticità mentale che a questo mondo di steward e hostess stagionali manca proprio, perché a comandarli sembrano essere non persone in carne e ossa ma per l’appunto algoritmi. Mettiamo le normative anti-Covid: va bene il Green pass e la mascherina durante la proiezione, ma a che serve un posto preassegnato che non si può nemmeno scegliere? Magari uno miope viene buttato in ottava fila tra decine di persone quando invece avrebbe potuto comodamente sedersi in prima fila da solo. Che senso ha? E perché al momento di prenotare non si può aprire come capita con Circuito cinema tutta la piantina della sala da cui ognuno può scegliersi la poltrona che preferisce? È questa ottusità mentale e organizzativa a perseguitare da anni questa altrimenti simpatica Festa del cinema e la rende un vero e proprio inferno della burocrazia alla romana. E in fondo è questa anche la differenza tra un Veltroni, o un compianto Gianni Borgna o un altrettanto rimpianto Renato Nicolini – tutti rigorosamente comunisti o ex tali, per carità – e un Dario Franceschini che utilizza la sua poltrona al ministero della Cultura come trampolino o come futura scala al fattore. Cioè al Quirinale.

Aggiornato il 25 ottobre 2021 alle ore 10:06