Al crepuscolo della vigente Legislatura, uno dei problemi che rimangono insoluti è quello del ruolo della Magistratura in Italia, che pur a Costituzione invariata, è venuto ad assumere una mutazione apparsa incontrollabile attraverso il fuorviante protagonismo di alcuni dei suoi componenti; senza contare l’anomalia di alcuni interventi espletati dal Csm (Consiglio superiore della magistratura) in materia legislativa, totalmente al di fuori delle proprie attribuzioni.
In tema di Giustizia, sono stati evocati ad adiuvandum – in maniera assolutamente impropria – dei paragoni con il sistema giudiziario vigente negli Stati Uniti d’America, al cui riguardo sembra dunque utile una riflessione chiarificatrice, prendendo le mosse dalla sempre attuale dottrina di Alexis de Tocqueville.
Il continuo accendersi dei dibattiti politici e dottrinali nel nostro Paese in merito alla separazione della carriera del giudice da quella del Pubblico ministero, nonché alla necessità di ristabilire gli equilibri costituzionalmente sanciti fra i tradizionali poteri dello Stato (Legislativo, Esecutivo e Giudiziario), rende vieppiù interessante il pensiero del filosofo e politico a quasi due secoli di distanza dai suoi scritti.
È doveroso premettere che gli Stati Uniti d’America, sui quali egli scrisse la più vasta e lucida opera mai realizzata da un europeo sul Nuovo Mondo, sin dal loro costituirsi furono un Paese di common law, cioè un Paese nel quale a differenza di quelli continentali europei di derivazione romanistica, la principale fonte del diritto era (ed è tuttora) costituita dalle sentenze dei giudici. Le riflessioni dell’autore, giustamente considerato uno dei padri del liberalismo moderno, non possono pertanto essere oggetto di acritiche e fuorvianti trasposizioni in un ambito come quello italiano, che ha conosciuto delle vicende storico-giuridiche assai diverse e che è l’erede principale della tradizione del ius scriptum, esaltante la centralità del ruolo della legge.
Nondimeno, dopo aver preso atto delle differenze sostanziali esistenti fra i due sistemi, il primo basato sul preminente potere normativo del magistrato, che opera secondo la regola dello stare decisis, il secondo sull’esclusivo potere normativo del Parlamento, riteniamo quanto mai utile una rilettura dei tratti essenziali del pensiero dello studioso francese.
Egli vide chiaramente che la mobilità delle classi sociali era una forza positiva che poteva scongiurare tendenze involutive, al pari della nascita di tante associazioni intermedie fra lo Stato ed il cittadino, cioè di quella pluralità ordinamentale che in Italia avrebbe avuto in seguito un sostenitore appassionato in Santi Romano. Tocqueville propugnò il sistema elettivo delle magistrature locali, con gli inevitabili condizionamenti legati alle maggioranze che le avevano votate, il che non era in contrasto con il suo fermo sostegno all’autonomia di quelle federali, riconducibile alla diversa logica della necessaria unitarietà dello Stato centrale, di cui le seconde erano espressive.
L’opera più importante di Tocqueville, La democrazia in America, segnò per il pensiero liberale una svolta significativa, al cui riguardo meritano una particolare attenzione le osservazioni sul potere giudiziario. Giunto Oltreoceano, Tocqueville rilevò che quel che riusciva più difficile da comprendersi per uno straniero era proprio l’assetto di tale potere, al cui riguardo testualmente osservò: “Non vi è avvenimento politico in cui non si intenda invocare l’autorità del giudice”. Negli Stati Uniti, come in Europa, il giudice operava solo previo esperimento di un’azione processuale e si occupava soltanto del singolo caso sottopostogli.
Tuttavia, aveva dei poteri ben più ampi rispetto a quelli dei colleghi europei, poiché – proseguiva – “gli americani hanno riconosciuto ai giudici il diritto di fondare le loro sentenze sulla Costituzione, piuttosto che sulle leggi. In altri termini, hanno loro permesso di non applicare quelle leggi che ritengono incostituzionali”. Allora come oggi, la Costituzione era garantita dalle Corti di Giustizia, in grado anche di paralizzare le leggi ordinarie che fossero state ritenute in contrasto con la Costituzione medesima. Dette Corti, e quella Suprema più di ogni altra, erano dotate di poteri tali che qualcuno aveva definito enfaticamente quello degli Stati Uniti, come un “Governo dei Giudici”.
Il cittadino americano, dunque, che si fosse ritenuto vulnerato da una determinata legge, sapeva di poter ricorrere alla via processuale per evitarne gli effetti, con la conseguenza che innanzi al moltiplicarsi del contenzioso giudiziario, la legge impugnata finiva con il perdere l’efficacia sua propria. Pertanto – proseguiva – o il popolo cambiava la Costituzione, grazie alla quale la legge era disattesa con giurisprudenza costante, oppure il Parlamento modificava la legge stessa. Più simile alle tradizioni europee era la procedura per la messa in stato di accusa dei funzionari pubblici, presidente degli Usa incluso, comprendente la contestazione degli addebiti effettuata preliminarmente dalla Camera dei Rappresentanti, ed il successivo giudizio che veniva formulato dal Senato.
Tocqueville osservò: “Gli americani, impedendo ai Tribunali politici di pronunziare pene giudiziarie (avevano) prevenuto le conseguenze più terribili della tirannide legislativa, ma non la tirannide stessa. Ed io non so – soggiungeva – se nel suo complesso il giudizio politico come lo si concepisce negli Stati Uniti, non sia l’arma più formidabile che mai sia stata messa nelle mani della maggioranza”. Proprio in ragione della struttura federale del proprio Stato, il Governo americano doveva poter contare più di ogni altro sull’appoggio della giustizia, poiché il federalismo lo rendeva naturalmente più debole innanzi ad eventuali conflitti con la periferia.
L’unitarietà della giurisdizione si esprimeva a livello di vertice nella “Suprema Corte degli Stati Uniti”, competente a decidere sulle questioni di interesse generale, sui conflitti di attribuzione fra le Corti dei singoli Stati dell’Unione, sulle controversie fra questi ultimi, o tra privati cittadini appartenenti a differenti territori statuali, o ancor sulle cause intentate da particolari categorie di soggetti (per esempio gli Ambasciatori).
Tocqueville acutamente osservava che l’Unione, così come era stata costituita dal 1789, aveva sì una sovranità ristretta, ma che in compenso era stato sancito che nel suo ambito esisteva un solo, unico popolo. In conseguenza di ciò, la giurisdizione dei singoli Tribunali locali era destinata ad ampliarsi o a restringersi, specularmente alle variazioni in più o in meno di quella, di ben altro spessore, esercitata dalla Suprema Corte, posta al vertice di un potere giudiziario che – rilevava – non aveva mai avuto una similare forza presso nessun popolo.
I membri della Suprema Corte venivano nominati dal presidente degli Stati Uniti, sentito il Senato: la loro indipendenza dagli altri poteri era altresì garantita dalla loro inamovibilità vita natural durante, e dal fatto che il loro stipendio, una volta determinato, non era assoggettabile al controllo parlamentare.
“Nelle mani dei sette giudici federali – commentava perciò Tocqueville – stanno la pace, la prosperità, l’esistenza stessa dell’Unione. Senza di loro la Costituzione sarebbe lettera morta; a loro si appella il Potere esecutivo per difendersi dalle usurpazioni del Corpo legislativo, e questo per difendersi dagli atti dell’Esecutivo; l’Unione per farsi obbedire dagli Stati; gli Stati per respingere le pretese esagerate dell’Unione; l’interesse pubblico contro l’interesse privato; lo spirito di conservazione contro l’instabilità democratica. Il potere di questi giudici è illimitato, ma è un potere morale. Essi sono onnipotenti finché il popolo accetta di obbedire alla legge; non possono nulla quando la disprezza. Ovunque negli Stati costituzionali europei il massimo della sovranità era nelle mani del Legislativo, cui erano subordinati l’Esecutivo ed il Giudiziario, con il rischio che ne derivava – ad avviso di Tocqueville – di un dispotismo della maggioranza.
Diversamente, negli Usa il potere sovrano era articolato – lo si è visto – su di una base federale saldamente legata tramite un sistema giurisdizionale di tipo piramidale. Alla base operavano (ed operano ancora oggi) dei magistrati eletti per un periodo di tempo limitato e con delle retribuzioni stabilite dal Potere legislativo, cui erano conseguentemente assoggettati. Sia in materia civile che in quella penale, accanto ai giudici “togati” intervenivano nei tribunali dei giurati popolari, in un’articolazione mista i cui vantaggi erano quanto mai evidenti nella prima, dove i giudici con l’apporto della loro competenza tecnica e della loro scienza potevano orientare quelli di estrazione popolare, ignari del diritto.
In campo penale, viceversa, dove l’analisi dei fatti era più importante della puntuale conoscenza delle norme da applicare, Tocqueville osservava che entrambe le categorie di giudici erano in grado di esprimere le loro valutazioni, con la stessa profondità di giudizio. All’inizio di questo Millennio balzò all’attenzione di tutto il mondo l’importanza della Suprema Corte, a causa del controverso computo dei voti del democratico Al Gore e del repubblicano George Walker Bush, che si risolse con la decisione di tale Corte, che – com’è noto – attribuì la vittoria finale per la nomina a presidente degli Stati Uniti al secondo.
Il conteggio dei voti ha costituito più recentemente un contenzioso tra Joe Biden e Donald Trump, con l’inoppugnabile vittoria del primo, supportata dal vaglio della Suprema Corte. L’alta giurisdizione federale è, pur nella fallibilità di tutte le istituzioni umane, tuttora quanto mai essenziale per assicurare l’ordinato svolgimento della vita politica nazionale e per garantire l’equilibrio fra le massime istituzioni.
Ben diverso dal modello americano è quello vigente nel nostro Paese, dove nello specifico della giustizia, le differenze sono ben più marcate perché, innanzi tutto, la nostra Magistratura ha una configurazione unitaria nei vari livelli di giurisdizione, che la rende in toto e non solo agli apici, indipendente da ogni altro potere, essendo – in base all’articolo 101 della Costituzione – soggetti soltanto alla legge, che pertanto costituisce per un verso la fonte del loro potere, e per altro verso ne costituisce il limite invalicabile.
In tempi abbastanza a noi vicini è stata messa in discussione l’unitarietà della Magistratura, che alcuni vorrebbero distintamente articolata nella carriera giudicante ed in quella del Pubblico ministero, anche per rendere più equilibrato il rapporto fra accusa e difesa, attualmente sbilanciato ai danni della seconda.
L’equilibrio dei fondamentali tra poteri teorizzato dal barone Montesquieu durante Tangentopoli risultò profondamente alterato, a causa della funzione di “supplenza” che di fatto venne ad essere esercitata dal potere giudiziario – o meglio da parte di esso – innanzi all’arretramento sbigottito di un Parlamento vacillante sotto i colpi dei mandati di arresto, poteva ancora ritenersi “fisiologica” nell’ambito di una fase di decadenza (morale prima che giuridica) destinata ad alternarsi con altre di ascesa.
Chiusa l’era di Tangentopoli, anche dopo la riforma elettorale che segnò con il passaggio dal sistema proporzionale a quello maggioritario – riforma votata non tanto per una sopraggiunta inadeguatezza del primo ad esprimere l’orientamento politico dei più, quanto per la sua (ingiusta) identificazione quale principale causa della deriva morale dei partiti tradizionali – alcune frange della Magistratura stentarono a rientrare nei ranghi loro assegnati dalla Costituzione. Ne derivarono – come accennato – proposte di riforma non del tutto disinteressate, tra cui quella di separare la Magistratura giudicante da quella inquirente, la qual ultima sarebbe dovuta tornare sotto l’Esecutivo, come in età regia. Ciò avrebbe comportato, a nostro avviso, una speculare straripamento: questa volta dell’Esecutivo nei confronti del Giudiziario, che ha già abbondantemente travolto, a sua volta gli argini che lo separano dal Legislativo. Quest’ ultimo in virtù della rappresentanza conferitagli dal popolo, è l’unico depositario del potere sovrano, mentre nella recente pandemia del coronavirus ne è stato totalmente spodestato a colpi di Dpcm di assai dubbia legittimità costituzionale.
Con il perdurare o addirittura l’istituzionalizzazione della confusione dei ruoli, e con il rischio della concentrazione nelle mani di un’unica coalizione politica del potere legislativo, di quello esecutivo e di gran parte di quello giudiziario, verrebbe a realizzarsi quella “dittatura della maggioranza” che Tocqueville aveva vivamente aborrito. Contro tale rischio esistono bensì dei meccanismi di garanzia, come i poteri di controllo assegnati al Capo dello Stato ed alla Corte costituzionale; nonché la procedura “rafforzata” che prevede una maggioranza qualificata per cambiare una Costituzione come la nostra (perciò detta “rigida”); ed infine i paletti insormontabili dei diritti fondamentali ivi riconosciuti, che dunque sono ad essa preesistenti e che nessuna sua eventuale riforma potrebbe eliminare.
La formale separazione dei tre poteri fondamentali da sola non basta dunque a garantire il reciproco controllo e bilanciamento, nel caso di una loro riferibilità sostanziale ad una stessa forza politicamente prevalente. La Costituzione, da canto suo, non è un dominio riservato alle maggioranze che si alternano al Governo, ma appartiene al popolo – come ben osservava Antonio Maccanico – cioè al presente e al futuro della collettività nel suo insieme. Una maggioranza, per quanto estesa, non deve mai scalfire i diritti delle minoranze e non deve contrastarne la possibilità che, in tempi più o meno vicini, attraverso la propaganda propria o gli errori altrui, possa a sua volta divenire maggioranza, per quella che gli anglosassoni amano definire l’oscillazione del pendolo (o altalena dei partiti).
In conclusione, sarà utile aver sempre presenti le riflessioni e le lungimiranti analisi di Tocqueville, il cui pensiero, a distanza di quasi due secoli, rimane di sorprendente attualità e ne perpetua l’immortalità spirituale, anche sopra il cielo dell’Unione europea, che ha più che mai bisogno di riconoscersi in solidi e duraturi valori etici, ben oltre la dimensione economica. Al Parlamento che verrà il compito di riaffermare la propria centralità nell’esercizio del potere sovrano di cui è delegatario dal Popolo, senza consentire ad alcun altro potere di farsene arbitrariamente interprete.
E men che mai a quella parte della Magistratura che ha disatteso l’imparzialità costituzionalmente sancita, mediante logiche di mero potere e di condizionamento della politica, svelate dall’inquietante libro-denuncia “Il sistema”, di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, del qual sistema il secondo è stato attore protagonista di primo piano.
Aggiornato il 31 maggio 2021 alle ore 12:59