Nulla di nuovo rammentando che la lingua italiana, il volgare, fosse già in uso al tempo di Dante Alighieri. E poi quanto la poesia fosse motivo di tenzoni tra giullari di corte e politici borghesi. Per farla breve, nel tempo la disputa tra l’italiano poetico del Ciullo (al secolo Cielo d’Alcamo) e quello politico di Dante venne vinta dal secondo, dal fiorentino. Perché l’italiano politico era la lingua dei ricchi mercanti e dei banchieri di Firenze, che prestavano danaro ad ogni corte della frammentata Italia: l’italiano politico era la cosiddetta “lingua commerciale”, stava alla finanza dell’epoca come l’inglese oggi a mercati e borse. Il povero Cielo d’Alcamo poetava nell’ambito della Magna Curia di Federico II (il Barbarossa), sulla cui memoria pende ancora la scomunica del Papa: come poteva mai l’italiano poetico di Ciullo, protetto da uno scomunicato, vincere su quello politico di Dante? Ma a quest’ultimo non andava certo meglio, ovviamente sul piano personale. Oggi fa non poco sorridere assistere alla solennità delle celebrazioni dantesche ma, per dirla alla Pier Paolo Pasolini, Dante incarna il primo intellettuale della storia italiana, che per amore cerca d’affermarsi contro il sistema.

Nella Divina Commedia ebbe a riversare odi, amarezze ed amore patiti nella sua carriera politica. Perché Dante, priore del Comune di Firenze, apparteneva agli Alighieri, famiglia di secondaria importanza, e poco considerata dall’élite sociale bancaria fiorentina. Il padre di Dante aveva cercato di inserirsi nel sistema, aprendo una bottega da “cambiavalute”: ma era solo un povero guelfo, ed i ricchi ghibellini (soprattutto dopo la battaglia di Montaperti) lo sbeffeggiavano in pubblico, ritenendolo nemmeno degno d’esilio, sorte che invece toccava ai guelfi più sanguigni e nerboruti. A sorpresa, nel 1300 Dante viene eletto tra i sette priori di Firenze e, nonostante fosse del partito guelfo, era anche acerrimo nemico di papa Bonifacio VIII (papa Benedetto Caetani). Insomma, un uomo controcorrente, libero, ed antisistema. A tal punto libero che, nonostante avesse sposato Gemma Donati (per promessa fatta dal padre quando aveva solo dodici anni), continuava a concupire l’amore per Beatrice Portinari, data in moglie al ricco e potente usuraio Simone de’ Bardi, fondatore della compagnia commerciale e finanziaria che poi garantirà l’ascesa dei Medici. Poteva mai un colto poeta, per quanto abile cavaliere (aveva partecipato a battaglie in difesa di Firenze) e scaltro politico, misurarsi con un Bardi o averla vinta con Papa Caetani? Il sistema dell’epoca costruiva una gogna giudiziaria su misura, condannandolo anche al rogo. Accusandolo persino di simonia, ovvero compravendita di cariche ecclesiastiche e titoli vari. Plausibile qualche ombra sulla vita pubblica di Dante, e perché il riscatto sociale e l’apparire (anche agli occhi di Beatrice) avrebbe comunque richiesto disponibilità economiche. Quindi l’autore della Divina Commedia era un peccatore come noi tutti.

Dante Alighieri come il nostro coevo Pasolini non si dovrebbero giudicare, ma per usare le parole di padre Virgilio Fantuzzi (storico critico cinematografico di “Civiltà Cattolica”) “considerare nella loro interezza, al di fuori di ogni pregiudizio”. Padre Fantuzzi ebbe la possibilità di parlare di fede, del peccato e di Dante, con Pasolini grazie a Valerio Zurlini. “A rendere possibile l’incontro con Pasolini – ricordava padre Fantuzzi – fu un altro regista, Valerio Zurlini”. Dante e Pasolini sono entrambi stati accompagnati da una pessima fama nel tempo in cui hanno poetato: una persecuzione non solo sul piano artistico ma anche su quello personale, fatta di processi e presagi di morte.

Ma Pasolini coglie prima di altri come, ne “La prima notte di quiete”, Valerio Zurlini abbia voluto raccontare il malessere dell’intellettuale dantesco italiano. L’esilio di Dante ed il suo amore per Beatrice vengono condensati (interpretati) da un Alain Delon supplente in un liceo classico di Rimini, a pochi passi dalla Ravenna che ospitava gli ultimi giorni del Sommo poeta. Il Dante di Zurlini è un poeta maledetto, un docente annoiato dalla vita, avvolto in un cappotto color cammello che lo veste da quando girovaga esiliato. Zurlini racconta il Dante che sempre vivrà in ogni intellettuale, e per farlo mutua il titolo al film “La prima notte di quiete” da Wolfgang Goethe che, alludendo alla morte degli irrequieti, la rappresenta come “la prima notte in cui si dorme senza sogni”. “Su per la costa, Amor, de l’alto monte…” cantava di quell’ultima notte senza sogni Cino da Pistoia, poeta guelfo ultimo amico di Dante

Zurlini scelse Rimini anche perché Paolo Malatesta e Francesca da Rimini incarneranno sempre nell’immaginario il destino dell’amore tragico e senza fine. Quel canto V della Divina Commedia che certamente riassume il Dante più intimo e turbolento. E Zurlini attualizza il messaggio del Canto V trovando una Francesca in ogni amore tragico: infatti da nome Vanina alla donna desiderata da Delon ne “La prima notte di quiete”, come Vaniva Vanini del romanzo di Stendhal che narra la storia d’amore tra una giovane aristocratica ed un carbonaro. Henri Beyle (detto Stendhal) aveva letto la Divina Commedia mentre giaceva ferito durante la campagna napoleonica d’Italia: aveva attraverso Dante carpito l’amore in quel Canto V, ma anche altro. L’amor cortese e gentile che delle lingue romanze è gran parte della narrazione. Una narrazione della donna Madonna che Zurlini affida a Dante Alighieri: “Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile ed alta più che creatura, termine fisso d’eterno consiglio, tu sei colei che l’umana natura nobilitasti, sì che il suo fattore, non disdegnò di farsi sua fattura”: il professore in panni danteschi parla così all’alunna Vanina (una sorta di Beatrice) ben sapendo di non essere compreso (destino dantesco). Zurlini opera un geniale cortocircuito per attualizzare nel 1972, e con un film, l’opera eterna di Dante sull’amore. Fa dire a Delon “termine fisso d’eterno consiglio”, ovvero il richiamo alla Madonna a cui s’affida Pasolini per avere conforto sull’esistenza irrequieta, contingente, amara, disperata. E Gustave Dorè, illustratore francese de La Divina Commedia, raccoglieva così le memorie dell’attendente del capitano Henri Beyle (Stendhal): “Dante è morto come il mio Bonaparte… amando fino a prima della notte”.

Aggiornato il 25 marzo 2021 alle ore 12:55