La cultura soffocata: è tempo di vivere

Ho una domanda che da un anno mi percuote furiosamente la corteccia cerebrale, ed è: “Perché con questa pandemia hanno voluto colpire soprattutto il settore dell’arte, della cultura e del divertimento con tutto il suo indotto?”.

Dopo un anno di ridicole zone rosse, gialle e arancioni, credo di aver finalmente individuato una risposta plausibile: perché l’arte, la cultura, persino il “divertimento”, sono attività che fanno paura a chi ci governa. Non esiste altra soluzione, se si vuole soffocare definitivamente in un popolo qualsiasi forma di libertà di pensiero (già poca in Italia in effetti, ma quel poco è pur sempre un ostacolo al pensiero unico), che togliere la possibilità – perché di possibilità trattasi e non di obbligo – di poter la sera (perché durante il giorno il lavoro lo impedisce) nutrire l’anima con i teatri, con la musica ed i concerti, con le mostre d’arte e persino con un aperitivo in compagnia degli amici.

Sopprimendo tutto questo con la giustificazione ipocrita della “salute pubblica”, si ottiene un popolo docile, impaurito, suddito, prono a qualsiasi volontà esterna gli verrà imposta per il suo bene. Perché scegliere (o non farlo si badi bene, ma averne la possibilità e dunque la libertà) di andare la sera a cena, o a un vernissage, a una presentazione di un libro, ad un concerto o a una pièce teatrale, è un atto di libertà assoluta di qualsiasi individuo.

Parlano di “socializzazione”, termine che personalmente non amo, preferisco “autodeterminazione”, libertà di scelta della propria vita. Ecco, questa è la parola chiave: vita. Quella che ci vogliono togliere, lentamente, costantemente ogni giorno che passa e ci stanno riuscendo con la migliore delle complicità, quella della vittima con il proprio carnefice.

Io voglio più vita, padre!”. Così sussurra la voce bassa di Roy Batty, il replicante ribelle, il guerriero perfetto che ha combattuto sui Bastioni di Orione, al suo creatore umano, il dottor Eldon Tyrell, molto meno umano di lui, nel capolavoro di Ridley Scott, “Blade Runner”, anno 1982. Batty è interpretato dallo sfortunatamente scomparso Rutger Hauer. Il replicante modello Nexus 6, in fin dei conti, vuole soltanto ciò che tutti noi agogniamo: vivere più a lungo se non per sempre. Ma all’Uomo non è data l’immortalità, e anche quella che viene così chiamata, e in rarissimi e particolari individui semileggendari esiste, in realtà è soltanto un’esistenza molto lunga che si rinnova di quando in quando su questa terra. Ma non è questo l’argomento e perciò lasceremo che Nicolas Flamel e sua moglie Perenelle, il misterioso Conte di Saint Germain, Melkitsedeq ed altri immortali, sino ai maledetti Aasvero e Cartafilo, restino nel limbo delle leggende.

Il tema affrontato in Blade Runner, il dolore di queste creature ultra-umane e quasi angeliche nella loro assenza di morale, è alla fine quello del tempo. Cosa ne facciamo infatti del tempo che ci è stato concesso e ci viene dato? Mai come in questo virale inizio di ventennio questa domanda ci martella forsennatamente le tempie, come i tamburi che chiamano alla battaglia. O alla rivolta.

Il tempo. Il vero nemico dell’Uomo. Il tempo che sprechiamo in futilità o, meglio, quello che doniamo a chi amiamo con le nostre attenzioni, la nostra presenza, i nostri pensieri. Questa inafferrabile ricchezza è la cosa più preziosa che abbiamo, un tesoro che si esaurisce di secondo in secondo, che pertanto deve essere utilizzato per creare, fare, vivere ora e non domani né ieri. Oggi assistiamo immobili al più grande furto di ogni era, ci stanno sottraendo il tempo impedendoci di vivere. Ecco perché anche io grido “voglio più vita, padre!”.

“Infinite cose da fare e così poco tempo” dice il Joker nel primo Batman di Tim Burton. Ancora una volta il tempo che ritorna a scandire se stesso, con le dita ossute sulla clessidra del suo teschio. Quel sensibile e delicato, lieve poeta che fu Franco Fortini era solito scrivere ai propri alunni Non perdetelo il tempo ragazzi forse ricordando il verso di Charles Baudelaire ne L’orologio dove lo strumento meccanico afferma: “L’orologio, il dio sinistro, spaventoso e impassibile, ci minaccia col dito e dice: ricordati!”.

Tempo… quanto ce ne resta? A vent’anni appare ancora intatto quel tesoro, quella candela è ancora integra nel buio della notte, ma si consuma, inesorabile. Tanto più per coloro che – sempre più rari – l’hanno accesa da entrambi i lati per farla brillare con il doppio del suo splendore. “Tempo bastante” dirà ancora Roy Batty nelle sequenze finali del film, sufficiente per concludere la sua vita con un ultimo atto di eroica compassione, sul tetto bagnato dalla pioggia e dalla luce dei neon, dove salverà la vita al replicante – suo “fratello” – Rick Deckard, che gli dà la caccia.

Rick Deckard è un Nexus 8, non ha data di scadenza, può vivere tutto il tempo concesso ad un umano. Batty invece i suoi quattro anni li ha finiti, ma… quel replicante concepito per uccidere in luoghi lontanissimi quali sono le Colonie Extramondo, in condizioni proibitive, alla fine del tempo concessogli piange perché tutte le cose da lui fatte e viste andranno perdute “come lacrime nella pioggia”. Un verso che da Arthur Rimbaud risale alla pavana di John Dowland nel XVI secolo: Flow my tears ovvero Scorrete lacrime chiamata anche Lachrimae.

 

Scorrete mie lacrime, dalla vostra fonte sgorgate!

Per sempre esiliato, lasciatemi gemere;

dove il nero uccello della notte la di lei triste infamia canta,

lì lasciatemi vivere sconsolato.

Spegnetevi, vane luci, più non brillate!

Nessuna notte è abbastanza cupa per chi,

disperato, piange la perduta fortuna.

La luce altro non fa che svelare la vergogna.

Mai potranno i miei affanni essere placati

poiché la pietà è fuggita;

e lacrime e sospiri e gemiti i miei stanchi giorni

di ogni gioia hanno privato.

Dal più grande appagamento

la mia fortuna è precipitata;

E paura e angoscia e dolore per ciò che mi aspetta

sono le mie speranze, poiché ogni speranza mi ha abbandonato.

Udite! Ombre che nella tenebra dimorate,

imparate a spregiare la luce.

Beati, Beati coloro che negli inferi

non sentono il disprezzo del mondo.

È quindi questo noto monologo di Roy a darci il senso di una vita vissuta pienamente: “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire”.

No. Il tempo che ci resta è quello di vivere. Anche se fossero soltanto quattro anni. Non sprecare neanche un nano-secondo, una flebile iota, un granello di senape… non gettare via nulla, per amore, perché chi vuol esser lieto sia, rendendo pieno e proprio il giorno, colma la notte, di vita contro chi vuole, ad ogni costo, negarla.

(*) Tratto da La Confederazione Italiana

Aggiornato il 17 marzo 2021 alle ore 09:24