“A saper bene maneggiare le gride nessuno è reo e nessuno è innocente”. Ieri pomeriggio, seduto alla scrivania, stavo dibattendo con mia moglie una questione molto controversa e naturalmente cercavo di far prevalere la mia tesi, che era esattamente l’opposto della sua, quando a un certo punto lei, indispettita, mi ha detto: “Sei un azzeccagarbugli”, e se n’è andata. A quel punto mi è venuto in mente l’avvocato Azzeccagarbugli dei “I promessi sposi”, il quale si è come materializzato di fronte a me, seduto all’altro lato della scrivania.
“Perché la chiamavano Azzeccagarbugli?”, gli ho chiesto.
Perché sapevo sempre trovare la via per sciogliere un nodo o superare un impaccio. La parola non è un’invenzione di Alessandro Manzoni: il primo ad usarla è stato Niccolò Machiavelli che in un passo delle “Legazioni” scrive “voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Diamo a Cesare quel ch’è di Cesare. A meno che Manzoni quella parola non l’abbia presa dal termine dialettale milanese zaccagarbùj, che sarebbe appunto lo scioglitore di nodi. Comunque io nelle prime edizioni del romanzo un nome l’avevo: mi chiamavo Pettola e Duplica. Poi m’è rimasto solo il soprannome, che peraltro mi si addice sino ad un certo punto.
Perché?
Perché azzeccagarbugli propriamente è l’intrigante, colui che s’impiccia di cose che non lo riguardano per trarne vantaggi personali. Ora, è vero che io m’interessavo di cose che non riguardavano me personalmente e che lo facevo per denaro, ma quella definizione, così com’è formulata, non mi si addice. Io facevo il mio mestiere e m’impicciavo delle cose altrui come tutti gli avvocati, come i medici s’interessano dei loro ammalati, e non lo fanno gratis ma per guadagno. E come non è un intrigante così l’azzeccagarbugli non è necessariamente un imbroglione, è uno che cerca di sbrogliare una matassa, di veder un barlume, uno spiraglio di luce dove le cose sono oscure e confuse, come spesso accade nelle leggi.
Lei ha detto più o meno che a saper bene maneggiare la legge nessuno è reo e nessuno è innocente. In che senso?
Nel senso che una legge non è un oracolo, non è il Vangelo, e a saperla interpretare un imputato può risultare contemporaneamente colpevole e innocente. A seconda dei punti di vista e delle argomentazioni che riescono a fare l’accusa e la difesa. Per esempio: la legge dice non rubare: chi ruba va in prigione. Ma se l’autore di quel reato ha rubato perché stava morendo di fame in prigione non ci va, perché ha agito per un bisogno naturale. E poi un conto è rubare una gallina, che magari era scappata dal pollaio e non si sapeva di chi fosse, un conto è rubare un orologio d’oro, tanto più strappandolo con forza dal polso del proprietario.
Lei però le leggi le interpretava a vantaggio dei potenti.
Non è vero! O perlomeno non sempre. Agnese, la madre di Lucia, dice di avere visto molti poveri diavoli impicciati come pulcini nella stoppa che non sapevano dove battere la testa e dopo essere stati un’ora a quattr’occhi con me alla fine erano contenti come una Pasqua.
Comunque lei con i potenti ci andava a nozze.
Anche un primo ministro per governare ha bisogno dell’appoggio dei poteri forti, il popolo può dargli il consenso, ma poi? In concreto i mezzi per governare glieli danno i poteri forti non il popolo, gl’imprenditori, le banche, i giornali, la televisione. Io invece di una nazione amministravo la giustizia, la quale ha bisogno di forza e di autorità, e siccome io non ne avevo abbastanza mi appoggiavo ai potenti.
Lei è molto acuto e scaltro nel volgere le cose a suo vantaggio. Comunque la rigiri sembra che la verità stia dalla sua parte.
La verità non ha una faccia sola, è questione di punti di vista: tutto dipende da lì, da dove si guardano le cose. La sa quella storiella in cui si parla di un padre avvocato che dà ragione a entrambe le parti in causa e come il figlio, presente a quel colloquio, gli chiede come possano avere ragione tutti e due risponde “hai ragione anche tu”? Giustappunto è il Manzoni che la raccontava, dunque il grande poeta non ha proprio motivo di prendersela con me e di denigrarmi.
Lasciamo stare il Manzoni: pace all’anima sua. Io le domando: dove sono la dignità e l’autonomia di un magistrato e di un avvocato quando entrambi, accusa e difesa, si danno da fare per vincere la causa, non importa come, con tutti i sotterfugi e gli espedienti che riescono a trovare?
Io non ho mai fatto ricorso a sotterfugi o a mezzi illeciti nella mia attività.
E con Don Rodrigo come la mettiamo?
Nel romanzo del Manzoni il problema non è Don Rodrigo, è Don Abbondio.
Che vuol dire?
Don Rodrigo, è vero, ha minacciato Don Abbondio, proibendogli di celebrare il matrimonio fra Renzo e Lucia, e la minaccia non è un reato grave. Ma Don Abbondio perché ha ceduto? È facile la vittoria di un avversario quando ha di fronte un pusillanime. E tale era difatti Don Abbondio, che per essere un prete, oltretutto, era ben peggiore di me, se vogliamo metterla su questo piano.
Ma lei aveva il dovere di difendere i deboli.
Io avevo il dovere di difendere chi ritenevo che avesse ragione, deboli o forti che fossero. Io non ho violato la legge!
Esistono leggi superiori alle quali un giorno dovremo rendere conto!
Non mi faccia il Fra Cristoforo, adesso! Spesso la legge stessa per rimediare alle sue lacune, alle sue storture, ricorre agli azzeccagarbugli, agli aggiustamenti, alle scappatoie, ai sotterfugi. In questo senso la legge è piena di azzeccagarbugli. Ma poi questa parola è usata in tono dispregiativo, e io ne difendo l’onorabilità. Meno male che nel mondo ci sono gli azzeccagarbugli che riparano certe ingiustizie. Io non difendo me, difendo la categoria. Gli avvocati azzeccagarbugli sono i benefattori degli umili, dei deboli e degli indifesi, il fatto che io godessi i favori dei potenti è perché i potenti, sapendomi così bravo, cercavano di tenermi buono, tutto qui. E io mi destreggiavo, un colpo al cerchio e uno alla botte.
Nel suo colloquio con Renzo lei inizialmente è premuroso e benevolo con lui perché lo scambia per un bravo (“ti sei tagliato il ciuffo, eh?”), quindi è evidente che lei stava dalla parte dei prepotenti. Quando poi scopre l’equivoco e Renzo non è più un bravo ma un povero diavolo e viene fuori che la minaccia l’ha fatta Don Rodrigo immediatamente tutta la sua premura svanisce: l’azzeccagarbugli non funziona più.
Ma si metta nei miei panni. Renzo m’imbroglia, mi dà ad intendere una cosa per un’altra, mi fa perder tempo
Il ritratto che è stato fatto di lei…
Il ritratto che è stato fatto di me è una montatura: sono stato definito pelato, buffo e sgraziato, con un naso rosso e una voglia a forma di lampone sulla guancia, come a dire un ghiottone e un ubriacone; un vile, un parassita, un egoista, un ipocrita, un miserabile servitore dei signori, dal linguaggio vuoto e formalista.
Con quest’ultima espressione il Manzoni ha voluto rappresentare una delle caratteristiche fondamentali del Seicento, il secolo della meraviglia, “bagnar coi soli e rasciugar coi fiumi”.
Ha disprezzato gli abiti che indossavo e il mio studio: uno stanzone sulle cui pareti sono appesi i ritratti dei dodici Cesari, rappresentanti del potere assoluto, come a voler dire che io leccavo i piedi ai signorotti prepotenti. Un grande scaffale di libri vecchi e polverosi, una tavola gremita di carte alla rinfusa e un seggiolone malandato. E la critica dietro a sottolineare il disordine, i mobili logori, simboli di un mio presunto decadimento fisico e morale.
Diciamo che il Manzoni ha calcato la mano perché nel suo decadimento fisico e morale ha voluto rappresentare la degenerazione della giustizia nel Seicento. Lei, dopotutto, è un simbolo di quel secolo. Ma poi, scusi: a lei che gliene importa? Tanto è un personaggio immaginario.
Anche i morti si rivoltano nella tomba quando vengono insultati. E poi mi si attribuiscono pure arroganza, paternalismo, superbia intellettuale derivante dal nozionismo non da una vera cultura, presunzione di superiorità e così via. Ma come e da dove le hanno tirate fuori tutte queste cose? Si vuol vedere in me un imbroglione, un fanfarone quando invece ero uno che sbrogliava le matasse troppo complicate, cioè scioglieva i nodi delle leggi quando e dove non erano abbastanza chiare e convincenti. Io poi avevo a che fare con le gride, che nel Seicento nascevano come i funghi una dietro l’altra su una pletora di questioni, e poiché non erano quasi mai rispettate ne venivano emanate altre, che pure restavano lettera morta perché le autorità se ne lavavano le mani. Esattamente come accade oggi con le vostre ordinanze, la cui totale inosservanza e inutilità sono rimaste come allora. Si impone ai possessori di cani di non lasciarli defecare per strada, si fa divieto di praticare il volantinaggio, di gettare l’immondizia dalle finestre o di lasciarla fuori dai cassonetti, di stendere la biancheria sui balconi, di dar fuoco alle erbacce e così via. Ma tutti se ne infischiano. Tal quale come allora. Cosa vuole dunque che potesse fare un azzeccagarbugli per far rispettare le gride? I legislatori facciano bene le leggi, chiare, precise e inequivocabili e gli azzeccagarbugli leveranno il disturbo. Comunque, sempre meglio gli azzeccagarbugli che gli avvocati che fanno i baciapiedi ai pubblici ministeri.
Resta il fatto che lei dalla descrizione che ne dà il Manzoni non ne esce bene, non ci fa una bella figura.
A me non interessa il giudizio dei signori, interessa il giudizio del popolo, della gente umile e indifesa. E Agnese mi definiva una ‘cima d’uomo’, che ha molto studiato e sa trovare il bandolo delle matasse più imbrogliate.
Lei ha detto a Renzo “se la cosa si deve decidere fra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Se volete passarvela liscia, danari e sincerità”.
Sincerità, certo. Chi dice le bugie al suo avvocato è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontare le cose chiare: tocca a lui poi saperle utilizzare, e se alla fine la spunta è sempre la giustizia che trionfa.
Lei descrive la giustizia come se fosse un pugno di argilla che si può plasmare a piacere.
“Oh, senta, lei mi sta facendo il processo, non un’intervista: fate tutti così voi giornalisti, non cercate la verità, siete voi gli azzeccagarbugli! E ve la prendete con me che in definitiva sono stato una vittima del mio secolo. E che comunque, nonostante tutto, sono e resterò uno dei personaggi più simpatici e interessanti de “I promessi sposi”. Addio!
“Sì, addio!”, ho esclamato ad alta voce. “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari”. E avrei continuato a declamare quel brano sino alla fine se a un certo punto non fosse arrivata mia moglie, che dalla soglia mi ha detto “ma con chi stai parlando?”. E io, ovvio: “Con l’avvocato Azzeccagarbugli”.
Sei entrato in politica per fare,
così tu dici, la rivoluzione,
quindi ti sei lasciato trascinare
dalla filosofia d’una fazione.
Quale imparzialità può mai sperare
da questa tua bravata la nazione?
E poi, dopo aver mosso monti e mare,
dici pure di avere l’intenzione
di ritornare a fare il magistrato.
Ma con che faccia e senso di giustizia
tratterai nei processi l’imputato?
La tua faziosa e subdola milizia
in un partito renderà viziato
il tuo verdetto, e questa è un’ingiustizia.
Aggiornato il 11 novembre 2020 alle ore 13:32