L’insopportabile retorica dei percorsi enogastronomici e delle tipicità del territorio

Nei venti anni che vanno dal 2000 al 2019 il tasso di crescita dell’economia italiana è stato tra i più bassi del mondo, il nostro Paese si classifica centosettantesimo su 180. Il dato, evidenziato da un rapporto del Fondo monetario internazionale non è stato ripreso dai media di un Paese incapace di fare i conti con i propri limiti e quindi incapace di cambiare. Il problema, prima che economico e politico sembra essere culturale. Ci si è rassegnati all’idea che sia possibile vivere rinunciando all’idea stessa di sviluppo, girando al “piccolo mondo antico” dipinto come luogo di perfezione, meta alla quale tendere. A tratti più che difronte ad un fenomeno culturale sembra di trovarsi difronte ad una nuova religione, celebrata a reti unificate. Tra onde blue e linee verdi è impossibile non imbattersi nella celebrazione delle fondamentali caratteristiche distintive dell’ulivo della provincia di Rieti e della celebrazione dell’eroico gesto di chi le olive le raccoglie ancora a mano. Allo stesso modo malgrado il fatto che oltre il 90 per cento del pesce è allevato in veri e propri impianti industriali (consigliamo a chi passa per Orbetello di fermarsi a vedere gli allevamenti ittici, ne vale la pena) in televisione mostrano solo barchette che prendono il largo e reti cucite a mano.

La religione del “piccolo mondo antico” ha, come ogni religione che si rispetti, processioni e sacerdoti. Le processioni sono i “percorsi enogastromici”. Ce ne sono ovunque e si moltiplicano a vista d’occhio, ognuno è pieno di eccellenze che testimoniano, udite udite, “l’unicità del territorio”. Di solito vengono accompagnati dall’intervista al politico di turno che, indipendentemente dal fatto che sia di destra o di sinistra, si esalta nel decantare caciocavalli, ricotte, costolette o arrosticini. Prodotti di un’economia arcaica che non solo diventano, secondo loro, l’unico futuro possibile, ma si trasformano in elemento identitario perché, “noi siamo ciò che mangiamo”. Se queste sono le processioni i sacerdoti sono, per quanto possa sembrare impossibile, ancora peggiori. Cuochi e sommelier sono ovunque e non parlano solo di amatriciana o di cotoletta alla milanese, ormai sono opinion leader a tutti gli effetti, essenza di classe dirigente. Con un italiano, spesso stentatissimo, ci spiegano perché lo spread si alza, commentano le manovre finanziarie, qualche sentenza. Perché anche commentare le sentenze è uno sport nazionale. E poi ci spiegano come fanno impresa. Questa è la narrazione dominante, poi ci sono i numeri. Quanto dichiarano in media i nuovi sacerdoti dello sviluppo? Sedicimila euro l’anno, meno di un loro dipendente. Quanto fatturano ristoranti, agriturismi, sommelier, teorici dello slow food? Poco, molto poco, tanto poco che elargire dei rimborsi è complesso. Un politico, in un raro momento di sincerità, ci ha anche spiegato il perché. Sembra che evadano troppo. Sembra ovviamente.

Sia chiaro, onore a chi lavora sempre e comunque. Nulla contro chef o coltivatori di olive reatini ma qualche domanda occorre iniziare a farcela. È possibile pensare a questo Paese come un borgo agricolo di inizio Novecento? Chi vi scrive pensa di no. Se si vuole recuperare la via dello sviluppo occorre rimettere al centro l’innovazione, il merito, l’industria, l’intraprendenza. Occorre spezzare il dominio culturale di chi ci vuole solo rurali, occorre dare spazio ad ingeneri, biologi, medici, architetti. Non siamo ciò che mangiamo, siamo ciò che riusciamo a realizzare. Ciò che realizziamo testimonia il nostro tempo e sul campo del progresso si gioca il ruolo che il nostro Paese avrà nel mondo. Su quest’idea vanno messe insieme le energie vitali di un Paese che sa ancora sfidare il futuro.

 

Aggiornato il 03 novembre 2020 alle ore 12:04