Parafrasando una famosa lirica di Giacomo Leopardi possiamo dire che ‘Sorelle a un tempo stesso Vita e Morte ingenerò la sorte’, e così proseguire con gli altri suoi versi: ‘Cose quaggiù sì belle / altre il mondo non ha, non han le stelle. / Nasce dall’uno il bene, / nasce il piacer maggiore / che per lo mar dell’essere si trova; / l’altra ogni gran dolore, / ogni gran male annulla. / Bellissima fanciulla, / dolce a veder, non quale / la si dipinge la codarda gente!’.

Facciamo qui anche un po’ di poesia, in fondo i versi quando sono belli e commoventi recano conforto. Noi due ci siamo nutriti di poesia, non di quella di oggi, che il più delle volte sono righe spezzettate di prosa incolonnate al centro della pagina per dare l’aspetto di versi, senza ritmo e musicalità. Non so se tu l’abbia letto, ma vorrei darne un esempio ai nostri lettori: è l’inizio dell’Eneide tradotta dalla Calzecchi Onesti (con l’aiuto di Cesare Pavese) definita ‘impeccabile’ dalla critica ‘ruffiana’:

Armi canto e l’uomo che prima dai lidi di Troia

venne in Italia fuggiasco per fato e alle spiagge

lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda

di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone”.

“È una vita che io parlo della Morte, nei miei libri, nelle mie conferenze. Fra i libri Il professore, la morte e la ragazza, che affronta le situazioni decisive dell'esistenza, fra cui la vecchiaia e la morte, inserendole nella vita di ogni giorno, le tasse, i furti, le domestiche ladre, da cui nasce uno scontro irrisolto tra la voglia di vivere in grande e una realtà sociale asfissiante, micragnosa, rimpicciolitiva nella quale il professore rischia di naufragare, morso dalla crisi economica, dalla pressione demografica straniera, dalla perdita della qualità culturale a cui lui aveva consacrato la vita”.

Anch’io ho parlato della morte, e l’ho pure tentata, a vent’anni, nel mio esilio calabrese, ma alla fine mi sono liberato dal timore della morte (ho quasi 95 anni), tu invece te la sei portata sempre dentro, la Morte è il tema fondamentale dei tuoi libri e in generale dei tuoi scritti. Tu la infili dappertutto. Ma quanti poeti e romanzieri ne hanno parlato! Per citarne uno: Vincenzo Monti. Trascriviamone i versi, uno dietro l’altro, per non rubare troppo spazio al giornale: ‘Morte, che sei tu mai? / Primo dei danni / l’alma vile e la rea ti crede e teme, / e vendetta del ciel scendi ai tiranni / che il vigile tuo braccio incalza e preme. / Ma l’infelice, a cui dei lunghi affanni / grave è l’incarco e morta in cor la speme, / quel ferro implora troncator degli anni, / e ride all’appressar dell’ore estreme. / Fra la polver di Marte e le vicende / ti sfida il forte che nei rischi indura, / e il saggio senza impallidir ti attende. / Morte, che sei tu dunque? Un’ombra oscura, / un bene, un male, che diversa prende / dagli affetti dell’uom forma e figura’”.

“Gli eroi di una volta, specie quelli del mondo classico, sfidavano la morte con un coraggio unico, anche perché credevano nell’aldilà molto più di noi, che crediamo alla favola di Cristo ‘risorto’ e salito in cielo addirittura col corpo, per andare a sedersi ‘alla destra del Padre Onnipotente’. Ma queste sono invenzioni della Chiesa cristiana e dei suoi ‘padri’. La nostra epoca non è eroica e vitale: imperversano la mediocrità e la sopravvivenza, ma non c'è sentimento, manca il senso della qualità, della supremazia, della superiorità d'animo, l'ammirazione per le cose nobili e alte, che sono l’essenza della civiltà. Il mondo greco, che fu e resta di gran lunga il più rappresentativo, coltivava la tragedia perché la tragedia mette alla prova l'uomo: era una società nella quale dominava non la speranza in un altro mondo bensì la felicità in questo mondo, e sebbene molti filosofi invitassero alla serenità, ciò valeva a significare che vi era un ribollìo di passioni, altrimenti non vi era bisogno di proporre la serenità, era una serenità con il fuoco dentro: delitti, incesti, orge, parricidi, matricidi”.

Fra i matricidi ricordiamo Oreste nella tragedia omonima di Euripide, forse l’unica in cui il delirio si consuma tutto sulla scena. Ma gli esempi sono tanti nella letteratura greca e in quella latina”.

“I greci imbandivano la vicissitudine dell'uomo recandola agli estremi, fissandola, a prova di coraggio. Oggi la vita è tragica, ma la percezione della vita è pavida, timorosa, perfino vile, nasconde il male o lo esagera per nascondersi. Non vi è il sentimento tragico perché non vi è l'individuo che dà valore a se stesso, il tragico è aristocratico, il singolo stima se stesso e ritiene un’offesa ciò che lo colpisce. Shakespeare ad ogni morte dei suoi personaggi fa sparire il mondo. Ormai viviamo all’ammasso, nell'indistinto indifferenziato, la democrazia non si è volta alla selezione verso l’alto, è andata sempre più in basso. Una delle domande che mi sono sempre posto, e che ancor più mi pesa oggi quando ci penso, è perché e come vivere sapendo di dover morire. Certo, ognuno reagisce all’idea della morte a suo modo e io nel mio ultimo testo rappresentato al Teatro Petrolini ho espresso alcuni modi di affrontare la morte, attraverso gli attori: una Morte stridula e beffarda che disputa con la Gioia, la quale ribalta la condizione umana sostenendo che proprio perché c'è la Morte bisogna vivere all’eccesso. Avendo scritto testi teatrali, in specie nella sfera della tragedia, mi sono trovato spesso a dover rispondere a delle persone che mi chiedevano come mai io trattassi quale argomento essenziale la morte. Non  so che dire, gli argomenti decisivi dell'uomo sono la vita e la morte, e la vita non sarebbe ciò che è  se non ci fosse la morte, mentre la morte non sarebbe ciò che è se non ci fosse la vita. Mai nella storia il nostro futuro è stato così incerto e così problematico come oggi. Non c’è campo in cui non prospettiamo qualcosa di orrendo, dalla guerra alla rovina dell’ambiente e alla crisi economica. Siamo dei naufraghi alla deriva, che invece di pensare alla sorte comune che li attende si mettono a litigare, e s’insultano e si azzuffano fra loro”.

Non sappiamo fare buon uso della ragione, non abbiamo imparato, dopo migliaia di anni, a saper pensare, a saper parlare, a saper ascoltare e a saper rispondere (nonostante gl’insegnamenti che ci vengono dal passato, da Plutarco, da Seneca, da Cicerone e da tanti altri). Non riflettiamo mai - non dico il ‘volgo’ ma almeno gl’intellettuali, i politici - che gli altri sono un’appendice di noi stessi, che quello che dicono anche i nostri ‘avversari’ molte volte lo abbiamo pensato pure noi, e che comunque è dentro di noi, appartiene anche a noi, perché in ciascuno di noi sonnecchiano le vite di tutti. Siamo più raffinati e smaliziati dei sofisti: per loro era vero ciò che in quel dato momento gli sembrava vero; a noi appare vero non solo ciò che in quel momento ci sembra ma soprattutto ci piace o ci conviene che sia vero. E perciò c’infervoriamo e ci arrabbiamo. Solo la mente del saggio, del mistico e dello scienziato, sicura in sé, s’acquieta. Il Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia (33 volumi enormi e pesanti) dedica alla Vita meno di tre pagine, alla Morte una diecina! Per la Chiesa cristiana la Vita è ‘un dono di Dio’, e, guarda un po’, proprio a causa di quel dono è nato il ‘peccato’ di Adamo ed Eva, che ha coinvolto l’intera umanità. Ma innanzitutto non si può donare una cosa a chi ancora non c’è, e poi la vita umana può considerarsi un dono di Dio se è la conseguenza di un peccato e quindi di una colpa, e se su di essa è stata lanciata una maledizione? Sì, però, dice la Chiesa, dopo è venuto il perdono. E allora, se la vita terrena è espiazione e preparazione alla vita eterna, più che un dono è un prezzo che si paga, un calvario, con qualche stazione per riposarsi, riprendere fiato e andare avanti senza farla subito finita”.

“La vita, in quanto dono di Dio, è sacra, e dunque non ci è dato privarcene. Ma i martiri cristiani, che andavano incontro alla morte pur avendo la possibilità di salvarsi? E Catone, che affrontò il suicidio per amore di libertà, gli eroi che si sacrificano per amore della patria, i soldati che combattono sfidando la morte? E gli antichi, che ‘esponevano’ i bimbi nati con delle imperfezioni o ritenuti troppo deboli per poter sopravvivere? E le madri che sacrificano la propria vita per i figli o per il nascituro quando la vita di un nascituro vale più di quella della donna che lo porta in grembo? Come posso io dunque sapere se la mia morte, causata da me o da altri, rientra o non rientra nel disegno di Dio? Oggi il grande guaio, non solo in Italia, ma nel mondo intero, è la mancanza di una cultura ‘alta’, che ha un ruolo fondamentale nella formazione dell'individuo sul piano intellettuale e morale, e in ciò gl’intellettuali hanno un compito importantissimo e una immensa responsabilità: il loro compito è quello di ridare un valore spirituale e aristocratico alla cultura e alla società. Se noi ci apriamo a questa sensibilità culturale, che si nutre anche delle religioni, di tutte, non solo del Cristianesimo (guardiamo l’India, la Cina e il Giappone), lo spirito può avere un futuro, diversamente cadremo sempre più nel terra terra politico, che non affronta i grandi problemi dell’umanità e vivacchia in una quotidianità spenta, inaridita, alla ricerca di qualche soddisfazione, nella convinzione che l’edonismo sia lo scopo dell’esistenza, ma che dell’edonismo non ha una visione classica, bensì una visione spicciola, di piccolo piacere, non l’equilibrio armonico della persona e l’apprezzamento della parte espressiva dell’umanità e dei rapporti umani. L’intellettuale non deve sentirsi inferiore ad alcuno e deve riconoscere a se stesso il diritto e il dovere di portare la società ad un livello che la politica, con la sua ricerca affannosa di una democrazia del vuoto, non è in grado di darle”.

L’errore di partenza è quello di ritenere che Dio faccia spuntare la vita con un colpo di bacchetta magica, come un prestigiatore che tira fuori gli oggetti dal cilindro o dal taschino in cui si trovano già abilmente nascosti. No: Dio non usa la bacchetta magica, non ha tratto tutte le cose dal nulla, come dice la Chiesa, e dunque anche la vita e la morte, tutto ciò che fa è opera di scienza, anzi, Egli è Scienza Personificata (il conflitto fra spirito e materia, come fra bene e male, vita e morte, e così via, non è che un fatto dialettico: la Realtà è una, per cui ben si può dire che spirito è la materia nel suo stato sottile e invisibile e materia è lo spirito nel suo stato concreto e visibile. Tale è la vita, la quale non è un dono, è il risultato di un processo scientifico operato dall’interno, visto che Dio occupa tutto lo spazio e non v’è un solo angolo in cui Egli non sia. Dio appare a Mosè sotto forma di fuoco, di nube e di uomo, parla a lui ‘faccia a faccia’, il che non è credibile, anche gli dèi pagani si trasformavano. Tutto è Dio e Dio è tutto, questa è la verità. Anche quel che è di Cesare appartiene a Dio. La vita individuale che noi riteniamo nostra altro non è che un prestito, che a un certo punto si estingue, e non per volontà nostra, anche se noi crediamo così, e necessariamente, diversamente andrebbe a monte tutta l’architettura. Allo stesso modo, se il nostro ruolo è quello di ragionare e di agire, non possiamo non credere di essere noi gli artefici e i responsabili dei nostri pensieri e delle nostre azioni. ‘Colui che agisce è stupido: solo chi contempla comprende veramente’, diceva Goethe. Il saggio non agisce, perché ha capito il gioco, o se agisce lo fa con la consapevolezza che il suo agire, come il suo non agire, rientra nella Legge divina, e quante volte, che soffra o che gioisca, che vinca o che perda, le labbra gli si schiudono al sorriso in una sorta di complicità! ‘Summum arbitrium est adhaerere Deo’, diceva Sant’Agostino: la vera libertà consiste nell’identificarsi pienamente con la legge di Dio, già stampata nel suo eterno volume”.

“Sul piano storico o dialettico la vita è tensione irrisolvibile tra infinito e finito, dissolvimento graduale e continuo delle forme in cui essa di volta in volta s’incarna. Questa è la premessa su cui si fonda la rivelazione cristiana, cioè il manifestarsi di Dio nell’uomo, dell’infinito nel finito. Contro le filosofie che avevano presunto di individuare la certezza nella staticità, Nietz­sche affermava che la vita non è conservazione neppure sul piano biologico, poiché il suo fine ultimo è la morte. Il divenire e l’instabilità della vita non consentono certezze e valori universalmente validi. Sul piano ideale la vita aspira ad una pienezza di fronte alla quale l’orizzonte di ciascuna epoca storica è sempre insufficiente. Il pensiero concettuale può trovare la soluzione e il suo superamento solo nell’intuizione, nello slancio vitale di Bergson. ‘Velo dietro velo cadrà, ma sempre velo dietro velo si troverà’”.

Vita, che sei tu mai? Dono divino

ti proclamano papi e cardinali,                

ma, se non sbaglio, questo regalino   

Dio lo dispensa ad esseri mortali.

 Dunque, che vita sei? Se il mio destino

è di morir, tu sei di tutti i mali

il più spietato, o, peggio, un assassino,

al cui confronto non ci sono uguali.

 Te, per la patria di morir felice,

sdegna l’eroe dal cuor nobile e forte, 

te non curano il saggio e l’infelice.     

 Ma se sta tutta in te la nostra sorte

e non ci attende un’altra levatrice,

tu non sei che il fantasma della morte.

 Reggio Calabria, 1946

Aggiornato il 09 ottobre 2020 alle ore 15:48