Il libro di bordo di Henri Frédéric Amiel

Viaggiando tra bancarelle e librerie antiquarie può capitare di fare incontri particolarmente fortunati: tutti gli amanti dei libri lo sanno. Così, nello stesso giorno, può capitare d’imbattersi negli Essais Critiques di Henri Frédéric Amiel, uno scrittore, poeta, saggista e pedagogista svizzero-francese vissuto intorno alla metà del XIX secolo, e in un libriccino scritto su di lui da Paolo Arcari, un bravo studioso italiano, e pubblicato nel 1912. Un simile doppio e quasi simultaneo ritrovamento potrebbe scaturire da una combinazione fortuita, ma in fondo anche da qualche sottile richiamo, da quel vento impercettibile emanato da certi libri verso coloro che possono coltivare con essi qualche affinità più o meno elettiva.

Henri Frédéric Amiel cominciò a pubblicare il suo Giornale intimo poco dopo il suo ritorno a Ginevra, nel 1848. Dopo aver girato mezza Europa, nella sua città natale ebbe iniziò anche la sua attività d’insegnamento, prima di Estetica e poi di filosofia. Durante il suo soggiorno in Germania Amiel era entrato in contatto col pensiero di Schopenhauer, da cui fu poi molto influenzato. Come Schopenhauer, e come Giacomo Leopardi, Amiel non nutriva certo molta fiducia nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità, né nell’idea hegeliana che l’umanità procedesse inesorabilmente verso l’affermazione della propria libertà. Questa era infatti per lui un’idea oscura: “Un’intuizione di sentimento scambiata per una nozione distinta”. Lo spirito non percepisce affatto i contorni di quest’idea, né può cogliere distintamente il suo significato.

Anche la posizione della democrazia non è per lui particolarmente chiara, né comoda: “Nelle società civilizzate del XIX secolo, l’estensione crescente dei diritti delle persone umane e la rivendicazione per lei di un’indipendenza sempre più completa dei suoi movimenti e di una partecipazione sempre più completa ai beni sociali è un fatto: questa emancipazione ragionata dell’individuo si chiama individualismo. Ma in presenza di questo fatto, ne spicca un altro che costituisce la sua negazione e il suo contrario; questo fatto è la reazione contro l’individualismo e contro le sue conseguenze, la tendenza a ridurre la libertà personale al suo minimo, il desiderio di mettere sotto tutela tutti gli individui al fine di realizzare meglio la felicità di tutti: questo fatto è il socialismo. Questi due principi, l’individualismo e il socialismo, dei quali uno intende diminuire il più possibile il ruolo e le competenze dello Stato, mentre l’altro si propone di dilatarne smisuratamente gli attributi e i poteri, giocano uno contro l’altro una grande partita, di cui la democrazia, incerta e perplessa, è l’arbitro. A quale dei due la democrazia assegnerà la vittoria? I giochi sono aperti”.

Ma se la libertà non può costituire per l’umanità né una guida chiara né un destino progressivo e certo, e se la democrazia ne ha sicuramente uno ancora più incerto, nemmeno la bellezza può incarnare un fine universale d’elezione, o almeno non può farlo per chiunque.

Goethe sostiene infatti che se tutti gli uomini sono predisposti al bene, un minimo numero di loro sono predisposti al bello. E Plotino ce ne segnala probabilmente la causa, con questa sentenza immortale: “Ciò dipende dal fatto che è per la sua natura solare che l’occhio possa vedere il sole, e l’anima deve per sua stessa natura divenire bella se vuole percepire la bellezza”.

Ciò che in fondo gli uomini possono fare, l’unico modo in cui possono predisporre la loro anima a scorgere la bellezza che li circonda fino a sprofondarsi in essa, è l’abbandono alla propria consistenza impersonale: “Tutti i miti e tutte le filosofie sono chiamate da lui a denominare e ad esprimere questo fenomeno, questo ‘rientrare nella propria eternità’, (…) in un Bewusstein impersonale, nel pleroma, nell’assieme di tutti gli esseri”.

In quest’assieme impersonale il luogo e il tempo sono per Amiel un mezzo fluido: “Ovunque io sono in casa mia, perché non ho un me particolare e nominativo; la mia felicità e la mia disgrazia è d’interessarmi a tutto (...): amare, sognare, sentire, imparare, comprendere, tutto posso purché mi si dispensi dal volere”.

Amiel si dichiara dunque pigro, ma felice di vivere; l’idea di Dio non gli basta se non è accompagnata da quella di dovere, né apprezza la fede che non sia attraversata dal dubbio, dato che “la fede che non ha mai conosciuto il dubbio non è che odio”. Non ebbe la gioia di credere alla domanda di un Dio paterno, che gli chiedesse dolore e fu sempre un fanciullo a cui la parola mai fece sempre male.

Secondo Arcari all’Amiel mancava forse un certo intuito del comico, e magari anche un certo afflato tragico, ma egli trovava comunque - nonostante la mancanza della domanda di quel Dio paterno, ma forse non in contraddizione con la mancanza di quella sua domanda di dolore - nella preghiera la possibilità di dissolvere il proprio io nell’universo, che è poi quanto fa svanire la domanda insieme al desiderio di fornire una risposta.

Alla fine, il congedo di Arcari dallo scrittore ginevrino assomiglia a un gesto di saluto affettuoso e quasi commosso alla sua immagine più autentica, ovvero quella che ci viene restituita dalla sua opera principale: “Quest’uomo che non aveva saputo mettere il suo cuore in nulla, né in una figura di donna, né in un credo né in una religione, né in un fantasma d’arte, né in una dottrina di filosofia per più che trent’anni, dal 1849 all’aprile 1881, ad una settimana prima della sua morte, l’aveva messo, con fedeltà oscura, in una segreta abitudine, in un’attività arcana come le vere opere di misericordia. Aveva redatto il proprio Giornale intimo: aveva trovato quasi tutti i giorni, fra le dissipazioni e i disgusti più terribili delle dissipazioni, il tempo per conversare con se stesso colla penna in mano”.

Egli trovò nel Giornale intimo questo passaggio: “Uno schermo contro tutte le piccole morti, contro la morte almeno della memoria: metteva in salvo qualche cosa per dire a se stesso di aver vissuto, ‘la nave è passata, sul mare incerto il suo solco è ben presto scomparso: ma puoi, o capitano, avere nel libro di bordo un testimonio del suo corso, ritrovare il suo cammino”.

Paolo Arcari, Federico Amiel, Formiggini editore, Genova 1912.

Henri Frédérich Amiel, Essais Critiques, Paris, Librairie Stock, 1932.

Aggiornato il 09 ottobre 2020 alle ore 12:14