Interviste immaginarie: Marco Aurelio

Questa mattina, visto che anche la televisione e altri giornali hanno accennato alla civiltà e alla cultura classica (io e Antonio Saccà abbiamo ricevuto pure delle telefonate), pensando all’ignoranza che delle opere degli antichi scrittori greci e latini regna anche nella scuola, non solo negli studenti ma anche negli insegnanti (ne ho avuto conferma dalla figlia di un amico che frequenta il liceo), mi sono detto: perché non dare un seguito a quell’argomento con una delle mie Interviste immaginarie ad uno scrittore, greco o latino, che possa offrire un esempio di quella cultura a chi nulla ne sa? Così sono andato alla biblioteca del mio studio e dopo aver letto i titoli delle opere da me tradotte e pubblicate dalla Newton Compton (più di una trentina, con ristampe anche di Mondadori, Rizzoli, Rusconi, Bompiani e Fabbri) ho preso i Pensieri di Marco Aurelio, scritti in lingua greca (ai quali, come ho fatto con altri libri col consenso dell’Editore, ho dato come titolo L’arte di conoscere se stesso, per attirare più facilmente i lettori: al De vita Beata di Seneca, che è stato il primo, diedi come titolo La felicità e fu un successone). Voglio aggiungere che la mia prima traduzione, pubblicata, è stata una delle Odi di Orazio, preceduta da un saggio introduttivo, pubblicata nel 1946, quando avevo vent’anni, e poiché si tratta di un fatto più unico che raro, dirò che in quell’anno, essendo impegnato come istitutore al Convitto Nazionale di Reggio Calabria (dove tutta la mia famiglia, che si trovava al Nord, si era rifugiata per sottrarsi alla “mattanza” dei rossi: eravamo 11 figli), l’unico periodo in cui potevo studiare o scrivere cose mie era la notte: dopo che i convittori si erano addormentati, poiché dormivo insieme a loro diviso semplicemente da una tenda, estraevo il cassetto del mio comodino e zitto zitto mi recavo nel bagno della camerata, lo rovesciavo sopra un lavandino a mo’ di scrivania e scrivevo poesie o traducevo per l’appunto le Odi di Orazio nella loro stessa metrica, un fatto raro, molto apprezzato dal Rettore dell’Università di Messina e dal professor Tito Lucrezio Rizzo, nonno dell’omonimo ex consigliere capo della Presidenza della Repubblica). Ho citato questo mio episodio personale non per vanità, ma perché almeno alcuni degli Italiani devono conoscere la differenza fra la cultura e la civiltà di ieri e quelle di oggi. Così, preso in mano il libro, per avere davanti a me l’immagine di Marco Aurelio che spicca sulla copertina, come al solito mi sono seduto sulla poltrona e l’ho intervistato.

“Prima di te”, ho esordito, “già gl’imperatori Antonimi avevano ricevuto nella loro infanzia un’educazione di stampo greco, e in lingua greca tu hai scritto appunto i tuoi Pensieri (Tà eis eautòn, A se stesso), i quali sono lontanissimi dalle ricercatezze formali che si trovano nelle opere, in greco e in latino, degli altri autori, di Frontone, ad esempio, e di Apuleio, il cui intento era quello di stupire. I tuoi Pensieri rappresentano un caso isolato nella produzione letteraria di quel periodo, perché gli altri filosofi sacrificavano il pensiero allo stile, usando la parola non come mezzo ma come fine”.

“A quel tempo in Roma la ‘neosofistica’ utilizzava la retorica per recuperare nella lingua greca la purezza dei modelli attici e in quella latina il gusto dell’arcaismo, con la conseguenza di un virtuosismo tendente all’effetto della frase, che risultava sonora ma vuota. Anche se il preziosismo letterario non sempre è fine a se stesso, a volte costituisce una difesa della cultura tradizionale contro chi cerca di rovesciarla. All’uso della lingua greca contribuì anche l’interesse per gli studi filosofici in quanto quello era il linguaggio proprio della filosofia. Con Antonino Pio si avverava dunque il sogno di Platone: il regno dei filosofi. Già per Plutarco i governanti dovevano avere almeno una base filosofica, oltre che morale. I filosofi a quell’epoca erano un po’ sacerdoti, poiché la filosofia andava acquistando sempre più un carattere religioso. Il termine, in precedenza era usato anche per i poeti: Musarum sacerdos si definiva Orazio nel Carmen saeculare”.

Foscolo chiamerà Parini sacerdote di Talia. Ma sacerdoti, dal latino sacer, che significa ‘sacro’, oltre a coloro che offrivano a Dio cose sacre (perché al tuo tempo la religione, da re-ligare, legava alla divinità, in ogni campo, anche nella politica), indicava pure chi svolgeva un’opera educatrice, e persino i seminatori di d’Annunzio, che nel loro gesto ‘hanno una maestà sacerdotale’. Dunque i filosofi al tuo tempo erano seminatori di saggezza: predicatori, missionari, confessori. Molti in punto di morte affidavano la propria anima a loro, come noi oggi facciamo coi preti”.

“A 12 anni avevo già così bene assimilato gl’insegnamenti dei miei maestri che presi l’abitudine di dormire sulla terra nuda, di mangiare poco e di astenermi dai bisogni superflui, compreso quello sessuale. Filosofo fin nelle midolla già da adolescente, quando studiavo indossavo il pallio, il mantello o la cappa dei Greci”.

“Come farà Machiavelli, probabilmente sul tuo esempio, e comunque su quello degli scrittori del mondo classico. In una lettera, indirizzata a Francesco Vettori, così scriveva: ‘Venuta la sera mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro’”.

“Alla morte di Adriano, il 10 luglio del 138, Antonino Pio mi assunse come suo cesare e nel 140 come collega nel consolato, associandomi poi nel governo dello Stato. Da quel momento cominciarono a fioccare su di me gl’incarichi pubblici e le lodi, delle quali io non mi curavo e che definivo ‘applausi della lingua’. Nonostante la ‘porpora’ (così chiamavo la vita fastosa di corte), non mutai le mie abitudini: per me prima di tutto veniva la filosofia. Questo imparai da mio padre adottivo: essere dolce, e tuttavia inflessibile nei giudizi, dati dopo maturo esame; non insuperbire degli onori ricevuti, saper resistere alla fatica; essere sempre disposto ad ascoltare chi rende utili servigi alla società; dare a ciascuno secondo il proprio merito; sapere dove sia meglio frenare o allentare; rinunciare alle follie della gioventù; non mirare che al bene generale”.

“Oltre che filosofo sei stato anche un politico: il tuo intento era quello di rafforzare l’autorità dell’Impero. A tale scopo dividesti l’Italia in quattro distretti, diretti da funzionari di rango pretorio nominati e dipendenti direttamente da te, accrescesti il prestigio del Senato, affidando ai suoi membri incarichi e funzioni giudiziarie, inoltre impedisti che personaggi di dubbia moralità venissero eletti senatori e favoristi invece l’elezione di coloro il cui reddito non era sufficiente perché potessero aspirare a quella carica”.

“Lo stesso rispetto mostrai nei confronti dei magistrati, snellendo i processi e consentendo che quelli che vedevano implicati dei senatori si svolgessero a porte chiuse; feci marcare a fuoco i calunniatori di professione e non presi mai in considerazione le accuse che avessero altri scopi che quello del trionfo della Giustizia. Limitai gli sprechi, diedi ai procuratori delle regioni la facoltà di punire e far punire gli esattori disonesti, stabilii che gli spettacoli iniziassero a tarda ora per non distogliere la gente dalle sue occupazioni, ma anche allo scopo di limitare i divertimenti e spingere il popolo ad interessarsi alla filosofia. Molte vittorie le ottenni grazie ai cristiani e ordinai che chiunque li avesse calunniati fosse punito con estrema severità”.

“A questo proposito Renan ha scritto che allora i cristiani desi­deravano che tutto peggiorasse per poter avere il sopravvento, che la so­cietà romana sentiva istintivamente che decadeva e ne incolpava, con qualche ragione, il Cristianesimo, accusando i sacerdoti cristiani di amare i fedeli al punto di baciarli sulla bocca”.

“L’affetto dei preti per le donne e i fanciulli suscitò mille facezie. Di fronte al severo paganesimo la Chiesa pa­reva una conventicola di effeminati. Quelle buone donne che s’affollavano intorno ai sacerdoti, l’abitudine di chiamarsi ‘fratello’ e ‘sorella’, il rispetto per il vescovo che induceva i fedeli ad inginocchiarglisi da­vanti, avevano qualcosa d’offensivo per i pagani e provoca­vano ambigue interpretazioni. I fanciulli venivano trascinati facilmente dalle parole dei sacerdoti e spesso ciò attirava su di loro severi castighi da parte dei genitori. Così la persecuzione infieriva sempre più. Il regno del terrore dilagò. Le denunce infittivano da tutte le parti. Il cristiano, come humilior e anche come infame, veniva crocifisso, o dato in pasto alle belve, o man­dato al rogo, o frustato. Scena desolante! Nessuno ne soffre più del vero ‘amico della filosofia’. Ma che fare? Non si può essere due vol­te in contrasto. Io ero romano, e agivo da romano”.

“Su questo argomento ed altri io ho scritto e pubblicato molte critiche alla Chiesa cristiana, che per me fin da quando ero bambino è stata come la lupa di Dante nella selva oscura: con il suo comportamento, con i suoi dogmi e le sue contraddizioni, invece di aiutarmi mi ostacolava il cammino verso Dio, verso il cielo. Un giorno, per dirtene una, un sacerdote, sedutomisi accanto, m’infilò la mano fra le cosce nude”.

“Ciò che infastidiva dei cristiani era quel loro cercare la morte e quell’andarvi incontro quasi con spavalderia, che suonava come una sfida, soprattutto a Dio. Lo stoicismo esortava a sopportare la morte non a cercarla. Per Epitteto l’eroismo dei cristiani era frutto di fanatismo. Io non l’accettavo. L’anima per me doveva essere sempre pronta a separarsi dal corpo, non per pura opposizione, come nei cristiani: il gesto doveva essere opera di riflessione, grave, capace di persuadere gli altri senza ostentazione di fasto tragico”.

“In te io ho trovato molto di me, quando ho tradotto e pubblicato i tuoi Pensieri, perché nelle scuole, anche quando le frequentavo io nel Ventennio, si leggevano solo l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, le Bucoliche e le Georgiche. Ma quando ho letto e tradotto i tuoi pensieri vi ho trovato la mia visione di Dio, del mondo e dell’uomo. Tu hai scritto che la vita e l’universo intero sono governati da una suprema legge di necessità, che è al tempo stesso provvidenza, nel senso che ogni cosa, ogni fatto e ogni singolo essere sono collegati fra loro come in una immensa ragnatela (una sorta di rete cosmica), i cui fili, simili a tante arterie, sono tutti interdipendenti, per cui si può dire che ciascuno occorra e concorra alla nascita e allo sviluppo di tutti gli altri, e che chi strappa un fiore disturba una stella. Ho qui davanti il tuo libro e voglio leggere il brano in cui hai descritto, come nessun altro ha fatto, nemmeno la Chiesa cristiana, la tua visione della vita, che corrisponde perfettamente alla mia: ‘Tutte le cose sono interconnesse in un legame sacro che le unisce, talché giustamente si può dire che nessuna sia estranea all’uomo. Esse, infatti, sono organicamente coordinate e simultaneamente concorrono all’armonia dell’universo. Unico è dunque il mondo, costituito dall’ordine in cui tutte le cose sono disposte, unico il dio che le pervade, unica la sostanza, unica la legge, unica la ragione che accomu­na tutti gli esseri pensanti, e unica la verità, poiché unica è la perfezione di tutti i viventi, che hanno la medesima origine e la stessa ragion d’essere. Pensa all’universo come ad un unico essere vivente che racchiude una sola sostanza e una sola anima, rifletti come tutte le sensazioni siano assorbite in una sua unica sensazione, come tutto si compia in virtù di un suo unico impulso, come ogni cosa concorra alla nascita e alla vita di tutte le altre in un intreccio comune di cause e di effetti. Pensa che anche il più piccolo fatto è necessario e utile all’intero universo, di cui tu non sei che una parte, e che alla conservazione dell’universo concorrono le trasformazioni degli elementi e dei loro composti. Tutti collaboriamo a un unico fine, quali con lucida coscienza, quali inconsapevolmente, e - come dice Eraclito - anche dormendo lavoriamo e contribuiamo a tutto ciò che accade nell’universo, chi in un modo, chi in un altro, e persino chi critica gli eventi o cerca di contrastarli e d’impedirli, poiché il mondo ha bisogno anche di gente simile. Ciò che accade a ciascun individuo è utile all’universo intero. Se si riflette attentamente si vedrà come ciò che è utile a un uomo lo sia anche a tutti gli altri, intendendo ‘utile’ in senso generale, cioè riferito alle cose che di per sé non sono né buone né cattive’”.

“Il mondo si trasforma, e con lui - in un rapporto reciproco - si trasforma l’uomo, che in ciò trova materia per un suo continuo e crescente accrescimento interiore e per una sempre più alta elevazione a Dio. La natura universale questo fa, sposta le cose, le trasforma, le prende da una parte e le porta da un’altra. Tutto è mutamento, ma ogni cosa è distribuita in modo armonico ed equilibrato, sicché nulla d’insolito può accadere che non rientri in quest’ordine, e nulla dobbiamo temere di nuovo. Ogni essere vivente è pago di sé quando procede secondo natura, e un essere razionale segue la giusta via quando non cede ad alcuna immagine falsa od oscura, quando utilizza solo quegli impulsi che tendono al bene della collettività, quando accetta di buon grado tutto ciò che gli viene assegnato da Dio. Non c’è da chiedersi perché accadano certe cose, né da meravigliarsi di nulla: è contrario al buon senso, è assurdo per un medico stupirsi che uno abbia la febbre o per un timoniere che si levi un vento contrario. Nulla può accadere all’uomo che non attenga alla sua condizione di uomo, così come nulla può capitare al bue, alla vite o alla pietra che non sia proprio della loro natura. Dunque, se ci accade ciò che per noi è solito e naturale perché dobbiamo arrabbiarci?”.

“Il mondo è quello che è. Volerlo diverso, costruirci sopra ipotesi, interrogativi e castelli in aria è pura esercitazione, che rientra anch’essa nella Grande Legge che ci governa, ma che il vero saggio generalmente non fa, perché riconosce che qualunque discorso appartiene ad un gioco dialettico, quale in definitiva è la vita umana. Questo, a ben vedere, è ciò che si ricava dai tuoi Pensieri, perché, se tutto è vano, la vita non può essere che un gioco di Dio. Vero saggio è colui che ne asseconda il gioco, perché ha scoperto il trucco, e, sia che vinca o che perda, rimane imperturbabile, schiudendo le labbra al sorriso in una sorta di complicità. Così va contemplando, impassibile e non senza un certo divertimento, come dice Lucrezio nel De rerum natura, il vario affaccendarsi degli uomini che vanno di qua e di là come delle pedine sopra una scacchiera, ignare d’ogni mossa e di ogni evento, nonché del gioco stesso e della loro stessa inconsistenza”.

La politica culturale nel Ventennio

“Noi siamo oggi davanti al fenomeno di una crescente ‘domanda’ di cultura italiana, ‘do­manda’ che è l’indice più sicuro del valore che si attribuisce alle nostre realizzazioni politi­che e ai nostri orientamenti spirituali. Segui­te sulle cifre la curva ascensionale della dif­fusione della nostra cultura e vedrete quale sbalzo essa abbia fatto, negli anni che hanno seguito la fondazione dell’Impero. Avevamo nel 1930 poco più di 2.000 studenti di italia­no nelle Università straniere e nei nostri Istituti di Cultura all’Estero: sono passati a 10.000 nel 1935; a 36.000 nel 1939. Inoltre circa 90.000 studenti sono iscritti ai corsi li­beri di lingua italiana. Nel 1930 avevamo 36 professori italiani nelle Università e scuole medie straniere, e 82 nel 1935. Ne abbiamo ora 233. Nel 1935 avevamo 5 istituti di Cul­tura: ne abbiamo ora 20. Non solo dai paesi vicini a noi ma dai più lon­tani, dall’America del Sud al Giappone, la gioventù studiosa si volge all’Italia. Chi gira­va il mondo anni fa vedeva di rado in una li­breria straniera un libro italiano: oggi i Pae­si si contendono le nostre Mostre del Libro: la lingua italiana entra sempre più largamente nei programmi delle scuole medie straniere, mentre continua ininterrotta la gloriosa tradi­zione delle Accademie di arte e di storia che in questi anni sono andate anzi aumentando e sviluppandosi - negli ultimi tempi sono sorte a Roma quelle dei Paesi Bassi, del Belgio e della Svezia. I nostri accordi culturali sono fondati sul principio della reciprocità e dello scambio. Noi abbiamo tutto l’interesse a crea­re una duplice corrente, perché a parte il fat­to che i nostri studiosi desiderano naturalmente aggiornarsi col movimento culturale degli altri paesi, noi stessi, per la nostra espansione culturale, abbiamo bisogno di creare gruppi di studiosi che seguano da vicino quei movimenti. È indispensabile che gli scrittori italiani vedano, osservino, giudichi­no in base a studi propri, perché anche questo fa parte della nostra indipendenza spirituale” (inter­vista rilasciata alla rivista Primato il 1° marzo 1940 da Galeazzo Ciano).

Aggiornato il 05 ottobre 2020 alle ore 13:11