Opinioni a confronto: civiltà e cultura

Ciao, Antonio, buongiorno. Ho già messo in moto il registratore. Possiamo aprire la nostra conversazione ‘culturale’ telefonica (col coronavirus ‘questo di tanta speme oggi ci resta!’) coi famosi versi di Giosuè Carducci: ‘Tutto ciò che al mondo è civile, grande, augusto, egli è romano ancora’. Al tempo dell’antica Roma, che è come dire all’alba della storia d’Italia, occupavano ogni regione ben quindici popolazioni diverse: Liguri, Etruschi, Veneti,  Latini, Umbri, Japìgi, Ernici, Falisci, Opici, Volsci, Siculi, Sabini, Elimi, Equi e Sardi. Solo Roma riuscì a fare di tante genti un solo popolo, unito e concorde. Una volta l’Italia era definita la ‘culla della civiltà’, oltre che del diritto. Alla fine della guerra Curzio Malaparte modificò l’espressione in ‘culla del diritto e del rovescio’, in cui ‘rovescio’ si può intendere anche nel senso di crollo o rovina. Oggi dalla culla siamo arrivati alla bara. Comunque di culle della civiltà ce ne sono state tante, ancora prima dell’antica Roma. Attualmente sono definite ‘culle della civiltà’ la Mesopotamia, l’Egitto, la valle del fiume Indo, del Fiume Giallo e il Mesoamerica, ma anticamente alcuni consideravano ‘culla della civiltà’ solo la Mezzaluna fertile, cioè l’area che va dalla Mesopotamia alla valle del Nilo. Ma che cos’è la civiltà? Poi parleremo della cultura”.

“Civiltà deriva dalla parola latina civilitas, che etimologicamente è collegata a civitas, che significa città e riguardava il modo di vivere delle comunità cittadine. Oggi per civiltà s’intende la visione del mondo e dell’uomo sul piano materiale, sociale e spirituale. La civiltà sta nel modo di concepire l’esistenza, le relazioni, le valutazioni, la qualità. Non  dobbiamo limitarci ad essere persone sociali, dobbiamo essere persone civili, cioè appartenenti ad una civiltà. Non tutte le società diventano civiltà. È vero che l’Antropologia culturale generalizza il termine di cultura e ritiene che tutte le società abbiano una loro cultura, per cui cultura e società si identificherebbero in quanto ogni società ha una cultura propria, ma bisogna considerare quale civiltà esprime una società. Esistono varie culture, ma è da insensati pensare che dobbiamo rispettarle tutte, e meno che mai accettarle o porle sullo stesso piano. Dobbiamo scegliere e difendere la civiltà che apprezziamo, e rifiutare le culture che pretendono di essere civiltà, mentre non superano il grado dell’essere culture, ossia modi di vivere associati. Per esempio, io preferisco il biondo allo scuro. Posso? Certo che posso, altrimenti passerei la vita nell’indifferenziato, il quale pure è una scelta, ma scegliere il differenziato non significa sopprimere ciò che non accettiamo, significa non accettare tutto e tutti. Noi italiani, però, non valorizziamo quella civiltà che fu e resta la nutrice della nostra civiltà, la cultura ‘classica’, la somma Grecia, Roma antica, il Cattolicesimo del passato: si è creata  una spaccatura tra il mondo classico e il mondo moderno, specialmente quello attuale. È la rovina, il rovescio nel senso che hai detto tu. È un orrore più che un errore: i giovani devono avere radici, non si difende quel che non si conosce, se non si apprende alcunché della cultura classica si cade nell’orrore di credere che tutte le società siano alla pari, di ricevere masse di persone a noi avverse, dissolvendo la nostra civiltà. Un esempio per tutti: i musulmani sono iconoclasti, non ammettono raffigurazioni sacre, noi, fin dai greci, siamo iconografici, la nostra arte è per la massima parte arte sacra. Ecco un caso di antagonismo devastante: una massa di islamici che prevalesse su noi disastrerebbe la nostra civiltà. Noi siamo la civiltà del pluralismo religioso e politico e dell’immagine. Dobbiamo cercare di formare cittadini in favore della nostra civiltà e della qualità della nostra civiltà, una democrazia aristocratica, che seleziona, una democrazia che tende alla aristocrazia dello spirito, i prodotti dello spirito devono essere verticali non orizzontali, i greci, i romani, l’antico cattolicesimo diedero civiltà perché attrassero il popolo non perché si piegarono alla plebaglia: il popolo va innalzato, questa è la democrazia aristocratica. In ogni tipo di scuola, anche le più estremamente tecniche, bisogna introdurre nozioni di civiltà e cultura classiche, arte, filosofia, storia, il ragazzo deve sapere che è la civiltà in cui vive, certo, conoscere anche il resto, per cogliere le differenze e poter scegliere. Ma a pensare che addirittura si tenta di trasformare la scuola in insegnamento a distanza telematica, c’è da scoraggiarsi”.

“Caro Antonio, tu sai che intorno al 1990, per un trentennio, c’è stato un risveglio dell’interesse per la cultura classica, alla quale io con le mie traduzioni di opere latine e greche, ho dato un contributo notevole con la Newton Compton Editori, quando cominciò con le famose 100 pagine 1000 lire, rivelandosi subito una benemerita dell’Editoria nel campo della letteratura greca e latina. Ricorderai la mia Felicità di Seneca (De vita beata), che un giorno casualmente alla televisione vidi in mano a Vittorio Sgarbi, il cui letto era letteralmente invaso da quei libretti fortunati, ma che, per il loro costo, accessibile al vasto pubblico, attrassero una massa di lettori quanti nessun’altra casa editrice ne aveva mai avuto. Nel 1994 ad un festeggiamento organizzato dalla Newton Compton a Villa Caffarelli, nel ventennale della sua fondazione, per i collaboratori della sua rivista Ieri, oggi e domani (fra i quali c’ero anch’io), Giovanni Spadolini, ch’era stato mio compagno di classe al liceo ‘Galileo’ di Firenze, fece un grande elogio all’editore, Vittorio Avanzini, dicendo testualmente: ‘Sarebbe bello che a Roma sorgesse una grande casa editrice nazionale. Ce ne sono di gloriose, ma badano solo al proprio ‘particulare’. Bisognerebbe che i romani facessero per la Newton Compton la stessa parte del tifo che fanno per la Roma’. Ebbene in quel tempo l’interesse, e diciamo pure l’amore, per il mondo classico era tale che il teatro allestiva spettacoli con sole letture di testi classici, spesso accompagnate da brani musicali, come abbiamo fatto anche noi due”.

“Questo perché nel mondo classico ci sono ideali e valori eterni, quindi sempre attuali. Ma anche le radici della nostra civiltà. Per non dire che molti si sono formati sulle pagine degli scrittori greci e latini, avendo frequentato scuole di indirizzo umanistico. Nel corso dei secoli ci sono stati momenti in cui l’amore per il mondo classico si è affievolito, ma di rinascita in rinascita, di riscoperta in riscoperta, fra classicismi e neoclassicismi, la nostra cultura ha continuamente riportato alla ribalta l’anti­chità, in un intreccio di filologia, di erudizione, di imitazione e rivisitazione. L’ultimo grande celebratore della classicità, di cui all’inizio tu hai citato il noto verso tratto dall’ode Nell’annuale della fondazione di Roma, è stato Carducci, che sempre in quell’ode scriveva: ‘Salve, dea Roma, chi disconosceti cerchiato ha il senno di fosca tenebra e a lui nel reo cuore germoglia torpida la selva di barbarie’”.

“La civiltà classica ha sempre occupato un posto privilegiato nella nostra storia culturale. Furono gli antichi stessi, Aulo Gellio per primo, a usare l’aggettivo ‘classico’ per indicare ‘chi o ciò che eccelle nella sua classe’, come un’opera o un autore di valore artistico superiore, per perfezione, armonia, equilibrio formale. Con l’Umanesimo al lavoro filologico e critico della cultura latina e greca si affiancò lo studio degli autori greci e latini quali modelli di pensiero, di stile e di vita. Nel periodo neoclassico, a partire dalla metà del Settecento, in concomitanza con la scoperta di Ercolano e Pompei e il fascino esercitato dalle rovine romane sugli intellettuali europei che affluivano in Italia (da Winckelmann a Goethe) la classicità si affermò come un modello ideale, non solo nel campo estetico-artistico ma anche in quello morale e politico, per le aspirazioni libertarie e i valori democratici dell’antica Grecia e le virtù della Roma repubblicana”.

“Vi sono certi testi, scritti venti o venticinque secoli fa, in cui si trovano atteggiamenti che ancora oggi riconosciamo e sentiamo validissimi: pensiamo ad Antigone, che sacrifica la sua vita in nome dell’amore fraterno e del rispetto per la salma di Polinice, e che proclama la superiorità delle leggi della co­scienza di fronte a quelle dello Sta­to, che a volte possono essere ingiuste, perché dettate da risentimenti o da interessi personali. Pensiamo alla pietas nei confronti dei vinti, a Virgilio, che pur esaltando il vincitore, il suo eroe prediletto, riesce a spostare sull’antagonista sconfitto la simpatia e la comprensione del lettore, capovolgendo radicalmen­te la scala dei valori dell’epos,  qual  era  stata  espressa  dall’Achille  omerico. Il Foscolo conclude i Sepolcri esaltando Ettore, non Achille (‘E tu onore di pianti Ettore avrai, / ove fia santo e lacrimato il sangue / per la patria versato e finché il sole / risplenderà sulle sciagure umane’)”.

“Non so se te l’ho mai detto, ma fu quella pietas, e dunque la civiltà e la cultura classica, che alla fine della guerra m’ispirò un libro intitolato Dalla parte dei vinti (anticipando il famoso libro di Pansa), che nessun editore ebbe il coraggio di pubblicare, e da cui alla fine trassi Avanti march! pubblicato nel 2007 dalla Bietti e ristampato nel 2011 da Greco e Greco Editore. La cultura classica, latina e greca, ha una forza immensa. Omero ne è la più grande testimonianza”.

“In realtà Omero è l’erede di una civiltà quale fu quella cretese e micenea. Lo testimoniano le sue descrizioni di palazzi, di armi, di suppellettili. Ma Omero incarna già, come un veggente, gl’ideali della Grecia futura. È un preclassico e un classico insieme, un precursore a cavallo di due civiltà. In lui sono presenti tutti gl’ideali, tutti i valori, tutte le aspirazioni dell’uomo: il culto delle virtù eroiche, l’amore per la natura, l’esaltazione della forza fisica, ma anche la coscienza della precarietà della vita, l’ineluttabilità del dolore (visto come male necessario prima ancora del Cristianesimo), la morte, l’accettazione della morte. E così via. L’Iliade e l’Odissea rappresentano dunque non l’inizio, ma il momento più alto e conclusivo di una lunga tradizione fiorita nella Grecia continentale durante l’età micenea (dal XVI al XII secolo a.C.) e venuta a definitiva maturazione nelle colonie ioniche dell’Asia Minore durante i ‘secoli bui’ (XI-IX sec. a.C)”.

“Uno degli elementi di fascino dei poemi omerici è la lingua, col suo colore, la sua precisione, la sua forza, la sua libertà. Già di per se stessa la lingua greca è sorprendente per la sua libertà, che la rende flessibile, fluida e armonica, tanto più nella lettura metrica della poesia. Nella lingua greca tutto è proporzionato. Come nelle arti figurative, come nell’architettura. L’esempio e il simbolo del più grande ideale di armonia e di perfezione è il Partenone, in cui le varie dimensioni, altezza, larghezza e lunghezza, trovano rapporti perfetti ed equilibrati, frutto di una sapiente geometria. Dante definisce Omero ‘poeta sovrano’. E tale egli è veramente. Perché come Mida mutava in oro tutto ciò che toccava, così Omero riesce a trasformare ogni cosa, ogni fatto, ogni passione umana in poesia: le battaglie, anche le più crudeli e sanguinose, l’ira di Achille, gli urli di guerra, il lamento delle donne che piangono i loro morti, tutto in lui e per lui è materia di poesia, perché la vita stessa, pur coi suoi mali e i suoi dolori, è poesia, se la guardiamo nell’insieme, superando il presente e i nostri casi personali. La vita va vista, anche, come un grande mosaico, o come una sinfonia, in cui c’è dentro di tutto. Un mosaico se ci mettiamo a debita distanza ci dice cose ineffabili, ma se andiamo a mettere gli occhi su questa o su quella scena, o peggio ancora sulle singole tessere, tutto l’incanto svanisce. E da dove nasce la poesia di Omero se non dal suo animo stesso?”.

“Caro Mario, in definitiva l’eredità che ci ha lasciato Omero è la saggezza. Possiamo dire che questo sia l’ideale più grande della classicità. Alla quale, infatti, noi ci volgiamo anche per questo, non solo per quel che riguarda la bellezza, l’armonia, il Mito. E la saggezza dovrebbe essere anche l’ideale della modernità, il conseguimento di un equilibrio interiore, di una visione alta e distaccata delle cose, del mondo e della vita. Non che si debba guardare le cose sempre così: non si può essere saggi a tempo pieno, ma ogni tanto bisogna farlo questo volo, non siamo venuti al mondo per restare sempre bambini e per farci i dispetti”.

“L’attuale degrado della nostra cultura affonda le sue radici nella scuo­la, che se da un lato ha portato i giovani ad allargare i loro orizzonti so­ciali, dall’altro ne ha imprigionato le mentì in uno schematismo ideolo­gico settario e manicheo, li ha avvicinati alla massa, ma non li ha edu­cati a guardare anche in alto, a sapere andare al di là del relativo e del contingente, e, quel che è peggio, invece di unirli li ha divisi. Quella che oggi prevale è la cultura della trasgressione, del sesso, del turpiloquio e della bestemmia. È la cultura della ‘diversità’ (ciò che turba ed offende non è la diversità in sé, è la sua ostentazione ), è la cul­tura del pentitismo e del perdonismo: un altro alibi, soprattutto per i giovani. C’è chi dice che ‘dovremmo smetterla di stabilire che cosa sia me­glio’ e ‘lasciarci invadere dal flusso di energia che sale dal basso’. Noi non pretendiamo che vengano soffocate certe aspirazioni, chiediamo però che accanto alla cultura della banalità, delle cose ignobili e volga­ri, sia dato il giusto spazio alla cultura dell’intelligenza, delle cose no­bili e pulite: quantomeno sia rispettala la par condicio”.

 

            Quasi mi sembra simile ad un dio
            quell’uomo che di fronte a te si pone
            e come intanto tu soavemente
            parli t’ascolta

            mentre ridi amorosa. Al che nel petto
            subito il cuor mi balza in un sussulto:
            per poco infatti ch’io ti veda, niente
             m’esce di voce,

            ché la lingua si spezza ed un sottile
            fuoco serpeggia sotto la mia pelle;
            nulla più non distinguono i miei occhi,
            romban gli orecchi,

            scorre sopra il mio corpo un sudor freddo,
            tutta un tremito sono e più dell’erba
            pallida, sì che poco lungi ormai
            sembro da morte. (da Saffo)

 

 

 

Aggiornato il 02 ottobre 2020 alle ore 13:17