L’intervista ad Antonio Saccà

Questa mattina, come faccio sempre, ho preso a caso un libro dallo scaffale della biblioteca, in cui sono disposti, in bella fila, con sopra una targhetta, per distinguerli, i libri degli amici. È un modo per sentire pure quelli che sono ancora vivi, e anche per ripassarmi la lezione. Il libro è di Antonio Saccà e s’intitola L’Indimenticabile (Artescrittura Edizioni 2011), che presentai e recensii sulla rivista Imperi, dell’Editrice Pagine. Sono parecchi anni che non ci vediamo, dopo avere partecipato insieme per tanto tempo alla presentazione di libri, a convegni letterari, a dibattiti televisivi e tenuto lezioni alla Università della Terza età. È stato ed è tuttora uno degli amici a me più cari. Così gli ho telefonato, e, messo in moto il registratore inserito nell’apparecchio (col Coronavirus “questo di tanta speme oggi ci resta!”), ci siamo scambiati alcuni dei nostri pensieri.

Caro Antonio”, ho esordito, “molto spesso in questi miei ultimi anni (sono arrivato a 94) ho pensato a te, anima, voglio dire con Orazio, qualis neque candidiorem terra tulit neque quis me sit devinctior alter. Ho detto candida perché, a dispetto dell’apparenza, nonostante la gravità dei tuoi discorsi, la complessità dei tuoi pensieri e delle tue argomentazioni sempre serrate e categoriche, tu sei davvero un’anima candida, anche quando difendi a spada tratta una tua tesi, per il piacere della dialettica, del discutere, di portare avanti, sino all’estremo limite, gli argomenti più ostici. Ogni scrittore, si dice, è sempre autobiografico, non fosse altro perché muove da una visione del mondo che è sua. Ma tu, nel momento in cui scrivi, automaticamente, per un processo istantaneo, consolidatosi ormai dopo tanta scrittura, trasfiguri la realtà, inserendola in una visione superiore, e insaporendola con una sottile ironia e con un linguaggio particolarmente efficace, pieno di neologismi originali (come illabirintirsi, immalvagire, immusulmanirsi, solitudinizzarsi, il greggiume ragazzesco, e così via). Tu hai sempre dipinto la nostra società, affondandovi il bisturi come un chirurgo che cerchi di estirpare il male, o il marcio che l’attraversa e la consuma”.

“Ne abbiamo parlato più volte, e tu lo sai. Il punctum dolens del mio pensiero sono il mio ateismo e la mia conseguente visione della morte che distrugge il nostro io individuale: la negazione, dunque, di un aldilà personale, in cui quantomeno si giustifichino le vicende di questo mondo, della vita umana, le ingiustizie, il dolore, le incoerenze, le assurdità, e così via. Perché la vita ha un senso solo se esiste Dio. Se Dio non esiste, tutto crolla. Ma se Dio non esiste, con chi prendersela? Inutile diventa qualsiasi sfogo, non c’è, o non dovrebbe esserci altro, che l’accettazione, meglio se rassegnata e serena (come in Lucrezio, ad esempio) di una realtà che in nessun caso può essere diversa, perché tutti siamo destinati a perire, per dar vita e per far posto ad altri”.

“Dio, l’amore e la morte sono il fulcro intorno al quale ruota il tuo pensiero. Ma davvero non credi in Dio tu che di Dio e con Dio parli continuamente? A volte mi sono chiesto, usando un’espressione di Dante, se tu sia veramente, in costrutto, quello che appari nei tuoi versi. Forse hai impostato così la tua poetica e così hai proseguito, perché l’hai trovata originale, come ha fatto Leopardi. Che ne sarebbe stato di lui se a un certo punto, dopo la felicità che provava da bambino quando alla domenica ascoltava due messe, si fosse convertito e avesse ritrattato il suo pensiero? Mi sono sempre chiesto: È possibile che un intellettuale della sua levatura non abbia capito, a un certo punto, che se la natura rendesse sempre all’uomo quel che gli ha promesso saremmo tutti felici? E che d’altra parte se non ci elargisse promesse e illusioni saremmo tutti infelici e la vita stessa non andrebbe avanti? Il fatto è che Leopardi capì che l’originalità della sua poesia stava proprio in quel conflitto, fra cuore e ragione, fra il poeta e il filosofo, nella mancanza di una risoluzione o di un qualsivoglia approdo, perché il discorso con la vita e col mondo resta sempre aperto”.

“In un certo senso così è accaduto anche a me, ma non deliberatamente. Come in qualunque poeta che inizia un percorso vestito in un modo e poi, anche se col passar del tempo muta il suo pensiero, non smette quell’abito, per coerenza o perché considera quel suo pensiero originale. A volte il poeta, fattosi maturo e saggio, porta comunque avanti il suo discorso iniziale custodendo un segreto che non può rivelare, pena il crollo della sua poetica, di quella costruzione che ha messo insieme con tanta fatica”.

“Certe tue affermazioni confermerebbero questa ipotesi. Di fronte al quadro desolato e pieno di un pessimismo cosmico, più di quello del Leopardi, verrebbe da pensare che tu sia (o che sia stato, oggi non lo so) un infelice, che i tuoi versi siano figli di dolore. Ma tu stesso l’hai sempre negato, dicendo che dopo avere scritto quei versi dolorosi te ne sei dimenticato, come uno yoghi dopo la meditazione dimentica le esperienze interiori che ha provato e vive comunque la sua vita”.

“Il poeta è un medium, quando sia veramente ispirato, un veggente. O anche un fanciullino, che ora piange e subito dopo ride, dimenticando il motivo che lo ha fatto piangere. Ma Pascoli non è così brutale. Il suo senso del mistero ti smarrisce e al tempo stesso ti esalta. E Dio, in cui egli non crede, esce ancora più ingigantito, se possibile, dalla sua poesia, una poesia che fa venire i brividi, le vertigini: quali mondi, quali evocazioni, quali pensieri, quali riflessioni ci sono dentro quel nulla apparente, quanti richiami, quante speranze! Quella di Pascoli non è certo una poesia nichilista”.

“È anche una questione di linguaggio. Tu, coerente col nostro tempo, sociologo, antropologo dei più profondi e spietati, giochi con le parole come pochi poeti o prosatori. In tutti i tuoi libri ciò che subito colpisce è l’impianto strutturale in cui si sviluppa e si articola la narrazione: vi si alternano descrizioni crude, di un realismo estremo, con impennate liriche improvvise e travolgenti; né vi mancano accorgimenti linguistici di grande impatto ed effetto, vocaboli nuovi, inventati di sana pianta ma costruiti su concetti ben precisi. C’è, insomma, una tale padronanza della lingua, un gioco così sapiente dei mezzi espressivi, che se ne ricava l’impressione di una spontaneità e di una sincerità sorprendenti. Io l’ho scoperto perché, come te e forse più di te, che non credi in Dio, sono legato alla Parola, che come dice Giovanni nell’esordio del suo Vangelo, è Dio, ed è da lì, dalla divina Parola, che sono nate tutte le cose. Ricordi D’Annunzio? ‘O poeta, divina è la parola; né la pura bellezza il Ciel ripose ogni nostra letizia, e il verso è tutto. E ancora: Parola, o cosa mistica e profonda”.

“Ben io so la tua specie e il tuo mistero, e la forza terribile che dentro porti e la pia soavità che spandi!”.

“In un capitolo del tuo romanzo Il professore, la morte e la ragazza sembra che tu fornisca la chiave di questa sorta di poema sinfonico che è la tua produzione poetica, in cui la parola è tutto e nello stesso tempo niente. Nessuna cosa esiste dove manca la parola, diceva Gottfried. E tu, come in definitiva faccio anch’io, ma in un modo diverso, e vorrei dire solenne, in quanto l’attribuisco a Dio, giochi con le parole, come facevo io da bambino, quando se mi si chiedeva qualcosa e non sapevo rispondere, invece di dire Non lo so, istintivamente dicevo Sonnolò. Più tardi avrei scoperto, non nella Bibbia ma in altri testi sacri, soprattutto indiani, che Dio, La Parola per antonomasia, traendo da se stesso l’universo, andava anagrammando in tutti i modi possibili le parole. Ne parla anche Umberto Eco ne Il pendolo di Foucault. Ultimamente anche tu, come da alcuni anni sto facendo io con le mie Interviste immaginarie, hai cominciato a fare incursioni nel passato, dove incontri personaggi, coi quali, per dirla con Machiavelli, smessi i panni di fango e di loto, t’intrattieni e discuti, tutto ti trasferisci in loro. Ne L’Indimenticabile – a cui, ne sono certo, stamattina mi ha guidato la mano di Dio – ti sei trasferito in Catullo. E come poteva non avvenire questo incontro, visto che Catullo è il poeta dell’amore per eccellenza e tu ne hai sempre seguito degnissimamente le tracce?”.

“Io ho sviscerato l’amore in tutti i modi e in tutti i sensi, spesso con un materialismo brutale, al limite dell’oscenità. Ma questa realtà, cruda, materiale, la trasfiguro alla luce dell’arte. Eros e Thanatos sono i due compagni inseparabili del mio mondo poetico. Fratelli a un tempo stesso Amore e Morte ingenerò la sorte, dice Leopardi. Altri poeti hanno parlato della morte, della vanità della vita e del tutto, ma c’è in loro un respiro, diciamo così, consolatorio: Leopardi, maledice la vita e la natura, ma il risultato è che ce le fa amare. Pascoli osservava che Leopardi aveva dato del mondo e della vita una visione conforme alla realtà (al gener nostro il fato non donò che il soffrire), ma vi aveva tolto una paroletta, Dio, la più piccola e al tempo stesso la più grande, senza la quale il mondo e la vita non hanno senso”.

“Il tuo punto di partenza sta nel fatto che non riesci a staccarti dal tuo io, vedi le cose (come la vita, l’amore e la morte) in funzione dell’io, del tuo io. È normale, è naturale. E d’altra parte, come tu stesso hai sempre detto, non ci tieni ad essere un saggio. E però per vedere obiettivamente e serenamente le cose bisogna staccarsi dall’io, andare al di là, diversamente i giudizi saranno sempre relativi. Così la morte e il nulla spaventano quelli che siamo noi in questo momento, ma in realtà la morte e il nulla non esistono. Nihil est mors ad nos, neque pertinet ilum, dice Lucrezio, e non perché quando ci siamo noi non c’è la morte e quando c’è lei non ci siamo noi, ma proprio perché la morte non c’è, non esiste: ci sono gli effetti della morte, che non riguardano il morto ma coloro che gli sopravvivono. Così il nulla. Il nulla non esiste, è semplicemente la negazione o l’assenza di una cosa, un flatus vocis. La morte non è il contrario della vita, è assenza di vita, anzi, nemmeno, perché noi diciamo assenza di vita guardandola dalla vita, mentre dovremmo vederla slegata dalla vita, ma slegata dalla vita è niente, punto e basta”.

“Tu parli da uomo saggio”.

“Ma lo sei anche tu, a modo tuo. Lo sai benissimo che la morte non è che una parola. Per questo i veri saggi non parlano nemmeno, e neppure pensano, o perlomeno non hanno i pensieri che ha l’uomo comune. Il vero saggio contempla. Non discute su Dio, sia che vi creda, sia che non vi creda, poiché Dio è un concetto, o dovremmo dire semplicemente un quid inafferrabile, al di là del nostro modo di pensare e di giudicare. Nel tuo L’Indimenticabile c’è una visione disperata, quale forse non c’è negli altri tuoi scritti. Anche per l’incisività dei versi e delle immagini, che si susseguono come tante pugnalate. Più che l’immagine della morte è l’immagine di una distruzione totale, di una conflagrazione universale: la morte, cioè il nulla, viene dopo, e non si può descrivere. Del resto nella vita tu ti sei anche divertito. Ti sei dato pure al teatro, nel senso che vi hai fatto il presentatore di te stesso, creando il Teatro d’autore, cioè dello scrittore che parla di se stesso, non solo nei libri che scrive, che in buona parte sono autobiografici, ma anche in teatro. L’ho fatto anch’io più di una volta al Teatro delle Muse, in cui ho recitato e presentato miei libri, mettendoli a disposizione degli spettatori, nel salone d’ingresso. L’hanno fatto e lo fanno anche i pittori: Michelangelo ha raffigurato il suo ritratto nel Giudizio universale. Ma prima di te nessuno scrittore si era presentato nelle vesti di attore in un’opera teatrale”.

“Oggi, dico oggi ma mi riferisco anche a una cinquantina di anni fa, il solo libro non è sufficiente, non accontenta più, perché non basta la parola. Ci sono stati scrittori che si sono dati al cinema proprio per questo, per completare l’opera, come si dice. Per citarne due: Pasolini e Alberto Bevilacqua”.

“Un’idea pirandelliana: come dire, rovesciandola, Un Autore in cerca di un personaggio”.

“Il contatto diretto col pubblico è molto importante. L’autore-attore si sdoppia, in Attore 1 e Attore 2, per cui c’è un continuo scambio di ruoli, e questo è molto interessante, con quell’andare e venire dalla sedia al divano e viceversa, con un effetto anche comico ma molto intelligente. A questo proposito, se posso accennarne in questa nostra conversazione, dato che sono anni che non ci sentiamo, al Teatro Petrolini in via Rubattino 5, a Roma, sotto la direzione di Paolo Gatti, il 29 settembre, alle ore 21, verranno rappresentati un mio Atto Unico e Dialoghi e Monologhi di carattere filosofico. Il testo teatrale è una umoristica visione del rapporto coniugale nel quale non si riesce a capire chi inganna e chi è ingannato giacché sia l’uomo che la donna presumono di conoscere le intenzioni dell’altro. Il testo si aggroviglia in vertiginose equivocità. L’uomo si confronta con la Morte, la Gioia, la Speranza, la voglia di vivere e di non vivere. Al dunque, amare la Vita nonostante la Morte. Queste letture tetralalizzate (un altro mio neologismo) sono affidate ad attori che hanno recitato in vari miei testi: Sabrina Tutone, Armando Como, Diego Vasapollo, Riccardo Moccia, Ettore Savarese. La regia è mia. Tra le varie esibizioni ci saranno interventi alla fisarmonica di Sergio Vasapollo. Perché non vieni? È un’occasione per poterci rivedere”.

“Magari! Mi reggo in piedi per miracolo. Vedrò”.

“Ora parlo a voi, Stelle infinite,

vasti firmamenti crescenti e senza barriere,

tumultuanti e agglomerate Galassie,

nebbie pulviscolari sciamanti nei vuoti:

precipitatevi di schianto,

coprite la Terra di una morte finale,

che non vi sia speranza

di nuova germinazione,

mettete conclusione a questa ripetizione

di vita vana”.

Aggiornato il 23 settembre 2020 alle ore 12:37