Interviste immaginarie: Roberto Lucifero

Tra le foto di grandi personaggi, della storia, della politica, della letteratura e dell’arte, appoggiate ai libri lungo gli scaffali della mia biblioteca, ce n’è una che mi è particolarmente cara. Vi è ritratto l’onorevole Roberto Lucifero, ex ministro della Real Casa, che tiene in mano il mio primo libro pubblicato nel 1947: un poemetto sulle discordie degli italiani intitolato La Virtù. Dietro di lui una folla di gente in mezzo alla quale s’intravede anche me (ultimo sulla destra con sopra una freccia rossa). Era venuto a Reggio Calabria nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche del 1948, e io lo conobbi nella sede del Msi, per il quale simpatizzavo e tenevo comizi e conferenze. Ebbene, questa mattina, entrato nello studio, il mio sguardo si è posato su quella foto e io, come ispirato, preso in mano un vecchio diario in cui descrissi i miei incontri con lui, mi sono seduto sulla poltrona, ho chiuso gli occhi e l’ho intervistato.

“Onorevole, ci siamo conosciuti a Reggio Calabria, dove la mia famiglia alla fine della guerra dovette scappare dal Nord per sfuggire alla mattanza dei rossi. Le regalai un mio poemetto, La Virtù, definita dalla critica una rivelazione potente e vigorosa di un’arte non comune ai tempi d’oggi, vicina a quella di Foscolo e Leopardi”.

Sedeva la Virtù, muta e negletta, da lungo tempo nella più remota sfera del ciel, cacciata e maledetta dalla Malvagità. Ricordo ancora i primi versi. L’ho molto apprezzato quel poemetto”.

“Lei mi prese subito a ben volere, come nessun altro uomo politico, neppure Almirante, quando venne anche lui in Calabria, durante la campagna elettorale”.

“Sono stati tempi difficili i primi anni del Dopoguerra. Come quelli del precedente conflitto mondiale. Io ho combattuto molto nel tentativo, vano, di conciliare gli animi, soprattutto dei politici. Sul quotidiano Italia nuova condannai l’epurazione degli ex fascisti voluta dal Governo Bonomi e la dittatura del Cln, il Comitato di Liberazione Nazionale, e più tardi chiesi a De Gasperi di rompere l’alleanza con i comunisti. Io non condividevo l’impronta antifascista che si voleva dare alla Costituzione, ritenendo che non dovesse contenere alcun riferimento né positivo, né negativo al fascismo. Per me la Carta costituzionale doveva contenere una sorta di preambolo così concepito: Il popolo italiano, nel libero esercizio della propria sovranità si è dato la presente legge fondamentale, mediante la quale si costituisce e si ordina in Stato. Punto e basta”.

“Aveva ragione. Nella nostra Costituzione la Repubblica italiana più che sul lavoro è fondata sull’antifascismo, e questo per il popolo è un fatto deplorevole che stiamo ancora portandoci dietro”.

“Nel ‘47 lanciai un appello a tutte le forze borghesi e moderate affinché si unissero in un’alleanza, dicendo testualmente: Destra e Sinistra hanno un significato pratico, i due schieramenti devono confrontarsi, sine ira et studio, come diceva Tacito, senza odio e veleno, perché questo vuole la dialettica, soprattutto nella politica”.

“Io ho scritto alcune pagine su di lei: in un diario sul nostro incontro a Montecitorio e su Avanti march! Lei fra tutti quelli a cui mi sono rivolto per ottenere un lavoro, non dico a Reggio Calabria, dove non c’era niente da fare, ma a Roma, dove passavo le notti sulle panchine dei giardini pubblici o nella sala d’aspetto della stazione, è stato l’unico che si è dato veramente da fare: mi scrisse due lettere di presentazione, una per il ministero delle Finanze e una per quello della Pubblica Istruzione. Avevo presentato due domande, una alla Rai e una al Ministero delle Finanze, ma lei mi disse: Alle Finanze è un po’ difficile, è meglio il ministero della Pubblica Istruzione. Presenti la domanda e io l’appoggerò. Se lei ha la possibilità di fermarsi a Roma potremo tenerci in contatto, altrimenti torni in Calabria e io non appena saprò qualcosa l’avvertirò. E mi diede una lettera da consegnare al segretario del Partito a Reggio Calabria. Purtroppo tutti i dirigenti, pur essendo suoi amici, alla fine mi chiedevano: Ma lei è reduce o partigiano? Così me ne tornavo da Roma sempre scornato. Finché, dopo che mi fui laureato, lei mi ottenne una supplenza al Convitto nazionale di Lovere: nelle scuole elementari, perché allora nei convitti nazionali solo quelle erano statali. Da lì poi venne il resto: nel ‘50, con le credenziali che lei stesso mi aveva consegnato e con quelle del rettore del Cesare Battisti di Lovere, ottenni un incarico al Convitto nazionale di Roma. Fu lei ad aprirmi le porte, nella mia carriera d’insegnante, o meglio, di educatore, e questo non l’ho mai dimenticato”.

Come sempre, seduto

sopra la mia poltrona,

un richiamo assoluto

dentro di me risuona.

 

Con gli occhi chiusi e il capo

leggermente piegato,

eccomi qui daccapo

a scrivere il dettato.

 

Il solito malessere

rode il mio corpo stanco.

Fra l’essere e il non essere

a malapena arranco.

 

Quando, immancabilmente,

affiorano concordi

nella fervida mente

fra i tanti miei ricordi

 

i volti a me più cari

dei grandi del passato,

che non hanno altri pari

nel nostro odierno Stato.

 

È con loro che vivo

oggi la vita mia,

ed ogni giorno scrivo

un canto alla Poesia.

Aggiornato il 08 maggio 2020 alle ore 14:00