Dalle colpe di Bonafede a “Il Traditore”

A colmare l’ingiustizia delle scarcerazioni facili dei boss mafiosi durante il lockdown, e a mettere riparo alla pessima figura del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, è il film di Marco Bellocchio, “Il Traditore”, candidato più probabile ai David di Donatello con 18 nomination, tra cui miglior regia, miglior attore (Pierfrancesco Favino) e migliore fotografia (Vladan Radovic). Quello che resta della lotta del giudice Giovanni Falcone, saltato in aria con 1000 chili di tritolo nella strage di Capaci, insieme con la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, è proprio la pellicola di Bellocchio, in cui la mafia è braccata, sviscerata nella sua folle, ridicola e spietata opera sanguinaria ad opera dei due protagonisti: il giudice e il “traditore” Tommaso Buscetta, interpretato dal magistrale Favino.  Lo Stato che vince sulla scena, contro lo Stato sconfitto nella vita.

Il sacrificio della vita di Falcone, come di quella di Paolo Borsellino e di tutti i magistrati e i caduti per mafia, disonorato e sfregiato dalle indecenti assegnazioni ai domiciliari di centinaia di boss col pretesto del Covid-19, rivive plastico e intoccabile nel film di Bellocchio. E credo fosse propria questa la volontà del regista: cristallizzare in un’opera summa la sconfitta di Cosa nostra, fermare almeno sulla pellicola i volti minacciosi, le grinfie, le maledizioni dei capi mafia nel gabbione del maxi processo, perché lo Stato rappresentato è fragile, permeabile,  colluso  e già nel film si preannuncia quello che poi si è rivelato. E cioè “inesistente” di fronte alla fatica, al dolore, alla rabbia, all’impegno totale degli uomini che la mafia l’hanno combattuta davvero dando la vita. Quindi non è solo il problema del ministro Bonafede, che pure mistifica le responsabilità impigliato nella vicenda della mancata nomina al Dap di Nino Di Matteo, ma del sistema nel suo complesso. Che Bellocchio centra perfettamente dimostrandone tutti i gradi di pervasività nelle istituzioni pubbliche e consegnandoci una “Cosa Nostra” che non è l’Italia, perché gli italiani non sono per natura mafiosi e la mafia resta  un corpo estraneo, che si oppone allo Stato però infiltrandolo e condizionandolo. E questo oggi risuona come una denuncia pesante, anche se forse non era nelle intenzioni del regista fare un film d’assalto.

Le intenzioni di Bellocchio sono chiare fin dalle prime scene e cioè fare un film storico, che attraverso la biografia di Tommaso Buscetta, cogliesse i particolari della mafia, i colori, i toni, le sfumature, le brutalità. E se questo nel film è riuscito magistralmente lo si deve, oltre che alla regia consolidata di Bellocchio,  alla fotografia del film che compie il “capolavoro realistico” e come un quadro d’epoca ferma e immortala l’epica di Cosa nostra. A firmare la fotografia  è Vladan Radovic, il quale nato a Sarajevo, e dunque respirata l’aria della sofferenza dei tessuti permeati dalla violenza, cresciuto alla scuola del Centro Sperimentale di Roma e alla lezione del maestro Giovanni Rotunno, coglie gli stilemi del “Gattopardo” e restituisce il clima barocco, quell’ oro e rosso che si mescolano al sangue e al fuoco, in un crescendo di rivalità e brutalità vuota e scellerata. Ecco Cosa nostra: la sua fotografia, i suoi volti, i suoi colori, le sue maschere.

L’intenzione di Bellocchio era proprio quella di fare un film in cui la mafia perdesse, senza sconti e senza trabocchetti, e il coraggio ne uscisse almeno sulla pellicola salvato. Ed infatti al centro dell’opera vi è il coraggio dei due opposti, quello del giudice Falcone e quello di Buscetta, che a suo modo si mette contro il clan siciliano e racconta la struttura e l’organizzazione siciliana, colpevole secondo lui di essere passata al traffico pesante della droga. C’è un momento del film in cui Buscetta seduto davanti a Falcone, prima di iniziare la sua collaborazione, mentre si accende una sigaretta, dice al giudice: “Dottore, dobbiamo solo decidere chi muore prima, se io o lei”. Perché appare scontato, la mafia è in Sicilia, nel Sud, nelle vie criminali d’Italia, d’Europa e del mondo, ma la fragilità è nello Stato come abbiamo visto in questi giorni, in cui mentre tutta Italia e tutto il mondo erano al lockdown, cioè tutti chiusi, tutti limitati, sono stati scarcerati e mandati ai domiciliari decine di criminali e 21 boss tra i più pericolosi, praticamente la geografia della ‘ndrangheta, dalla Calabria fino alle Alpi, passando per la Capitale. Allora dov’è che vince la mafia e perde la giustizia?

Questa profonda colpa istituzionale sarà colmata almeno dal riconoscimento al film di Bellocchio, alla interpretazione realistica e drammatica di Favino, alla fotografia di Vladan Radovic, che per sempre ci consegnano il volto sconfitto dei capi dei capi. Se non siamo capaci di uno Stato incorruttibile, siamo degni di un cinema salvifico che eleva il peccato a grande arte.

Aggiornato il 08 maggio 2020 alle ore 18:21